Non occorre essere laureati in Statistica per capire, dai casi di cronaca che ormai da mesi compaiono sui giornali, che i “nuovi” infanticidi – nuovi perché hanno caratteristiche tristemente inedite – sono ormai un’emergenza. Sono morti ben quattro bambini da gennaio. Giuseppe, sette anni di Cardito, Gabriel, due anni, Daniele, due anni. E infine Leonardo, sempre due anni, ucciso dalla madre e dal suo nuovo compagno. Ci sono somiglianze incredibili in queste storie: genitori generalmente giovanissimi, storie mai nate che finiscono subito, nuovi compagni spesso sbandati, senza lavoro, quasi sempre drogati, violenti a livelli inimmaginabili e, peggio, senza alcuna consapevolezza della propria violenza.

Ammetto che come persona umana e madre in questi mesi ho sofferto tremendamente leggendo queste storie. Ho impiegato settimane, senza riuscirci del tutto, a togliermi dalla mente e dal cuore la vicenda di Giuseppe; poi sono arrivati anche gli altri. Purtroppo non è difficile, leggendo, entrare nella mente di un bambino e capire ciò che può avere provato, quale angoscia senza fine può aver vissuto a trovarsi a convivere con qualcuno che lo torturava. Perché il problema più tremendo di questi omicidi non è l’omicidio in sé – fossero scoppi d’ira improvvisi, che uccidono all’istante – ma il pregresso: i mesi e le settimane precedenti, la violenza progressiva, la presa di consapevolezza del bambino di essere a rischio di morire, la sua totale solitudine di fronte al più assoluto degli orrori. Non so se le stampa abbia reso un buon servizio in questo – se chi legge è sensibile non ha bisogno di dettagli per capire – ma il fatto di aver insistito su alcuni comportamenti atroci (come può un uomo bruciare i piedi di suo figlio, o del figlio della sua compagna, con un accendino?) ha reso tutto ancora più doloroso e difficilmente sostenibile a livello emotivo. Per tutti, credo.

Ad ogni modo, è assolutamente arrivato il momento di andare oltre la cronaca, il cui racconto purtroppo non cambia le cose. Se sono morti quattro bambini in pochi mesi, vuol dire che ci saranno altri casi magari con caratteristiche simili: padri e patrigni violenti, madri violente, bambini molto piccoli, degrado, genitori giovani, senza lavoro, che fanno uso di droghe (la droga, un’emergenza assoluta). Vuol dire anche che è in atto una mutazione drammatica e pericolosissima della famiglia che mette a rischio i più piccoli, più deboli. Vuol dire che non esiste più un vicinato, non esiste più neanche uno straccio di società intorno che protegga la famiglia stessa; anche, semplicemente, controllandola. Un tempo l’occhio che circondava la famiglia poteva essere soffocante, ma almeno svolgeva una funzione di controllo. Nel caso di Leonardo nessuno ha visto e chi ha visto, come alcuni parenti che intervistati successivamente hanno ammesso di aver saputo della violenza dell’uomo, non hanno fatto nulla. Esiste un’omertà diffusa, un’indifferenza generale sconvolgente.

Oggi, chiusa la porta di casa, è l’anarchia. Si può torturare un bambino senza che nessuno se ne accorga. Al tempo stesso, è collassato ogni senso della famiglia, ogni idea di famiglia, intesa come una piccola struttura/comunità con il compito di proteggere chi ne fa parte, a partire dai bambini. Qui ci sono solo gravidanze per caso, figli buttati in una casa o in un’altra senza nessuna idea di come crescerli, madri e padri troppo giovani e privi di una struttura psicologica “normale”, ma completamente collassati dal punto di vista emotivo, oltre che alterati da sostanze stupefacenti. Madri totalmente succubi di uomini violenti, tanto da non riuscire neanche più a reagire di fronte alla tortura dei propri figli.

Ma il problema qui è anche lo Stato, sono le istituzioni. Quelle che sono pronte, giustamente, ad attivare la macchina di punizione una volta che un corpo martoriato arriva in ospedale ma che non fanno nulla prima, quando invece avrebbero anche e soprattutto il compito di proteggere i minori. La cosa davvero sconvolgente è che alcuni degli uomini violenti imputati in questi casi erano già noti alle forze dell’ordine per precedenti, spesso di maltrattamento. Perché abitavano in casa con un bambino piccolo, magari non loro?

Non solo: alcune di queste famiglie erano conosciute dai servizi sociali, in un caso già due figli erano stati tolti alla madre. Perché se due figli erano stati tolti, altri continuavano a vivere in pericolo? Esiste un’omertà dei servizi sociali stessi? E se non è omertà ma solo carenza, mancanza di fondi, paura stessa della violenza di quegli uomini – le assistenti sociali sono spesso donne – come si fa a proteggere bambini in famiglie apertamente incapaci di proteggere i bambini? Perché nei Pronto soccorso, dove in precedenza erano stati portati, qualche volta i medici non rilevavano la violenza sui bambini (Leonardo era andato per un morso, era stato detto di cane, come è possibile non riconoscere la differenza?). Se le madri, anche, assumevano droga, è probabile che lo facessero anche in gravidanza: i medici sapevano?

Ritorna qui l’atroce contraddizione di uno Stato che per farti adottare un bambino ti esamina per mesi e anni e quando invece una donna partorisce un figlio l’abbandona 24 ore dopo il parto, senza neanche sapere dove andrà a finire il bambino. In quasi tutti i Paesi europei c’è una persona specializzata che va a casa dopo il parto e non solo per aiutare la madre nell’allattamento, ma anche per vedere in che situazione si trova la famiglia ed eventualmente fare una segnalazione. È una misura rivoluzionaria, costerebbe poco ma servirebbe moltissimo. Come aiuterebbe, di nuovo, un welfare degno di questo nome e parlo soprattutto di una rete diffusa di nidi; e anche della diffusione della cultura del nido. Perché è vero, non sempre la scuola salva – nel caso di Giuseppe le maestre sapevano e non fecero nulla, colpevoli a mio avviso non come i genitori ma comunque tantissimo – ma se quei bambini di due anni fossero stati dentro un nido ci sarebbero stati occhi che avrebbero visto, ci sarebbe stata una comunità alternativa alla casa che avrebbe aiutato il bambino e forse lo avrebbe salvato.

Ma di famiglia non si parla più, tranne che per sbandierare presunti aiuti – il famoso miliardo promesso da Luigi Di Maio – peraltro smentiti subito (e ora con la vittoria della Lega non c’è rischio che tornino).

Ci sono vari appelli alla natalità, ma un piano di sostegno per i bambini che già ci sono non c’è. Il reddito di cittadinanza aiuterà qualche famiglia, ma non protegge i bambini a rischio di violenza, perché per proteggerli bisognerebbe potenziare al massimo e riformare i servizi sociali, seguire le madri fuori dagli ospedali, mandare i bambini a scuola in età precoce, potenziare i centri antiviolenza che esistono e funzionano, assicurarsi che tutti i Pronto soccorso abbiano un protocollo di riconoscimento della violenza sui bambini, fare una lotta senza quartiere all’uso di stupefacenti. Tutte cose di cui nessuno parla nel dibattito pubblico. Tutte cose che passano in secondo piano, per colpa di tutti, anche dei media stessi, salvo poi restare tutti sconvolti di fronte alla cronaca. Almeno, dobbiamo essere consapevoli di questo: non ci illudiamo, questi quattro casi segnalano una tendenza. E purtroppo è probabile che mentre scrivo ci siano bambini in pericolo e altri che potrebbero presto morire nelle mani di un drogato privo di qualsiasi pur minimo senso del reale. Possibile che non si possa fare nulla? Possibile?

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