Lo strappo tra il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, e il Partito Popolare Europeo potrebbe essere definitivo. A dare l’ultima stoccata, dopo mesi di scontri e riappacificazioni, è stato proprio il premier magiaro che, durante una conferenza stampa congiunta con il vice cancelliere austriaco, Heinz-Christian Strache, a Budapest, ha annunciato che Fidesz non sosterrà più la candidatura di Manfred Weber come presidente della Commissione europea: “Stiamo cercando un nuovo candidato”, ha dichiarato. Il capo del governo, che in occasione del Congresso del partito, a novembre, aveva dato la sua preferenza proprio all’esponente della Csu tedesca, in corsa contro l’ex primo ministro finlandese Alexander Stubb, ha spiegato di aver cambiato posizione quando Weber ha detto che non voleva diventare presidente della Commissione con i voti degli ungheresi: “Se qualcuno offende un Paese in quel modo, il primo ministro del Paese offeso non può certo sostenerne la candidatura. Su una cosa siamo d’accordo con Weber, non può diventare presidente della Commissione con l’appoggio di Fidesz”.
Un’eventuale rottura, mai stata così vicina come adesso, porterebbe con sé importanti conseguenze sulla futura maggioranza nel Parlamento Ue, in Consiglio europeo e sulla nomina delle alte cariche dell’Unione dopo il voto del 23-26 maggio. A livello di composizione della plenaria, le conseguenze sarebbero meno gravi che in altri contesti: se i Popolari decidessero di formare una coalizione europeista con Liberali e Socialisti, ancora più probabile nel caso di un’uscita di Orbán dalla più grande famiglia europea, i numeri per una maggioranza, almeno secondo i sondaggi, ci sarebbero ancora. L’alleanza Ppe-Liberali-S&D, senza i 15 seggi di Fidesz, godrebbe comunque di 403 rappresentanti, 27 in più dei 376 necessari per avere il 50%+1 in assemblea.
Le cose cambiano se si inizia a fare la conta dei voti in Consiglio europeo. La proposta dei capi di Stato e di governo deve giungere con la maggioranza qualificata, ossia con il 55% degli Stati membri che rappresentano almeno il 65% della popolazione Ue. Condizioni che dovrebbero far dormire sogni tranquilli all’eventuale alleanza, visto che tra Ppe, S&D e Liberali in Consiglio si contano 21 rappresentanti su 28, escludendo Orbán. La situazione può però cambiare se, come ha più volte ribadito negli ultimi mesi, Emmanuel Macron riuscisse a compattare il fronte Liberale per boicottare la candidatura di Weber: in quel caso, i governi a sostegno del bavarese rimarrebbero solo 13, insufficienti per ottenere la maggioranza qualificata. Così, si rimetterebbe in discussione la figura dello Spitzenkandidat Popolare che verrebbe ridiscussa e rinegoziata in sede di Consiglio, prima, e in Parlamento, poi.
A mettere in discussione la permanenza di Fidesz tra i Popolari è stato lo stesso Orbán che, nel corso della conferenza stampa, ha prima dichiarato di essere membro del Ppe, ma poi ha specificato che “non possiamo immaginare il nostro futuro in questo Partito Popolare, dove le formazioni pro-immigrazione rappresentano la maggioranza”, come si legge nel tweet del suo portavoce Zoltan Kovacs. Parole che hanno solo preceduto la stoccata finale: “Se il Ppe diventasse intollerante nei confronti delle nostre visioni, naturalmente dovremmo iniziare a cercare il nostro posto altrove”. Il riferimento è anche al voto del Parlamento che, con il supporto proprio del gruppo di maggioranza, ha dato l’ok all’attivazione dell’art.7 dei Trattati per gravi minacce allo Stato di diritto.
L’auspicio del premier ungherese, spiegato ai microfoni del Kleine Zeitung prima della conferenza stampa congiunta, è quello di creare una maggioranza in Ue che assomigli proprio al modello di governo austriaco, dove i Popolari del Övp collaborano con i sovranisti del Fpö. Durante l’intervista, il premier ha ribadito che esiste il rischio “di una rottura definitiva con il Partito popolare europeo”, ma questa è una cosa “che non cerchiamo e non vogliamo”. Ma la tendenza del Ppe ad “andare verso la sinistra” farà sì che “perderanno l’identità, i loro valori cristiani”, mentre i partiti bollati come estremisti stanno conservando questi valori senza chiamarsi democristiani: “Il problema dell’élite europea è che non crede nella forza dei dirigenti forti, capaci di infiammare la gente“, ha concluso.
Questa visione, all’interno del Ppe, è condivisa soprattutto da Forza Italia che con un’eventuale uscita di Orbán dal gruppo potrebbe trovare in Silvio Berlusconi il mediatore ideale per cucire i rapporti con l’estrema destra. Un’operazione difficile, dopo gli scontri degli ultimi mesi, e che potrebbe anche mettere a rischio i rapporti con l’ala più liberale del partito, quella rappresentata dai Paesi del nord Europa.
Berlusconi ha comunque colto l’occasione per spingere la proposta di un’alleanza tra il Ppe e le destre “democratiche”: “L’Italia – ha detto – continua a non crescere, non ci sono nuovi posti di lavoro, troppe aziende chiudono e l’anno scorso 280mila giovani sono stati costretti a emigrare per cercare un lavoro. Ci sono troppe cose che non vanno e non si vedono cose positive all’orizzonte. Io, insieme a Fi, mi sono dato due missioni. Una per l’Italia, ottenere i voti per fare in modo che si possa costruire una maggioranza alternativa e un altro governo, in Parlamento o attraverso nuove elezioni. Poi c’è una missione per l’Europa, che noi vogliamo assolutamente cambiare, attraverso un ricambio delle alleanze del Ppe”. E questo cambiamento deve avvenire attraverso un distacco dalla sinistra: “Il Ppe – ha concluso Berlusconi – deve lasciare l’alleanza con la sinistra per fare uno schieramento con liberali, conservatori, gli esponenti della destra democratica e, magari, anche con quella testa matta di Orbán con Salvini, che devono capire che da soli in Europa non vanno da nessuna parte”.
Twitter: @GianniRosini