Impeachment o non impeachment? Potrebbe essere sintetizzato così il dilemma di fronte al quale si trovano i Democratici americani dopo la pubblicazione del rapporto di Robert Mueller. Nelle ultime ore la leadership del partito ha cercato di allontanare l’ipotesi della messa in stato d’accusa del presidente. “Possiamo cercare le prove della responsabilità di Trump anche al di fuori dell’impeachment”, ha detto la speaker della Camera, Nancy Pelosi, che ha però anche riconosciuto che il partito è “diviso”. La sinistra democratica, l’ala più progressista, continua infatti a insistere. Il presidente deve essere messo in stato d’accusa. “È una questione di principio”, spiega la senatrice del Massachussetts e candidata alla presidenza, Elizabeth Warren.

È stata la lettura delle 400 pagine del rapporto di Mueller a convincere molti democratici della necessità di incriminare Donald Trump. Il documento non trova prove di collusione con il Cremlino – anche se spiega con una larga mèsse di particolari gli interessi convergenti di oligarchi russi e team di Trump durante le presidenziali 2016. La vera questione è però quella dell’ostruzione della giustizia. A differenza di quanto scritto dal presidente nel tweet esultante con cui ha accolto la pubblicazione del rapporto – “No Collusion, No Obstruction, Complete and Total EXONERATION”, ha twittato Trump – il rapporto di Mueller non lo solleva dal reato di ostruzione della giustizia. Anzi, sono innumerevoli i luoghi in cui lo special counsel documenta “sforzi mirati per controllare l’indagine” ed esercitare “un’influenza non dovuta”.

Si va dalla pubblica umiliazione del segretario alla giustizia Jeff Sessions – continuamente attaccato e vilipeso perché non avrebbe bloccato l’investigazione – alle richieste di prestare falsa testimonianza che Trump fece a collaboratori come il White House counsel, Don McGahn, o il fido consigliere, Corey Lewandosky. Il rapporto è pieno di paragrafi con titoli come “Il presidente ordina a Priebus di chiedere le dimissioni di Sessions”, o “Il presidente ordina a McGahn di negare che il presidente abbia cercato di licenziare lo special counsel”. A pagina 90 c’è anche questa frase: “Il presidente ha cercato di usare i suoi poteri ufficiali per rimuovere lo special counsel”. Oltre a pressioni e minacce, è anche documentato il licenziamento dell’ex direttore dell’Fbi, James Comey, oltre al ruolo di Trump stesso nella vicenda della visita dell’avvocatessa russa Natalia Veselnitskaya nella Trump Tower (fu proprio il presidente a dettare il testo della dichiarazione, firmata dal figlio Donald Jr., secondo cui l’avvocatessa era venuta a New York per parlare di adozioni; in realtà, il tema era il possibile materiale compromettente contro Hillary Clinton).

Lungi dal sollevare Trump dalle sue responsabilità, Mueller compone dunque un quadro tutt’altro che assolutorio. Perché quindi lo special counsel non ne ha chiesto l’incriminazione? La risposta sta nella dottrina legale da decenni abbracciata dal Dipartimento alla Giustizia, secondo cui un presidente non può essere incriminato mentre si trova in carica. Da uomo delle istituzioni – è stato a sua volta direttore dell’Fbi – Mueller decide di onorare precedenti e interpretazione prevalente della legge. Mueller lascia però in eredità una frase pesante come un macigno, che inchioda Trump alle sue responsabilità: “La conclusione che il Congresso può applicare le leggi sull’ostruzione della giustizia all’esercizio corrotto del potere da parte del presidente si accorda con il nostro sistema costituzionale… e con il principio che nessuno è al di sopra della legge”.

È qui che appunto entra in gioco il Congresso. Quello che fa Mueller è lasciare proprio al Congresso la decisione di perseguire “il corrotto esercizio del potere” di Trump. Ed è su questo che i democratici si dividono. C’è chi, come Elizabeth Warren, pensa sia necessario seguire la strada indicata dallo special counsel. “Se qualsiasi altra persona in questo Paese avesse fatto quello che è documentato nel rapporto di Mueller, sarebbe arrestato e messo in prigione” ha detto Warren, secondo cui l’impeachment è qui “non una ragione di politica, bensì di principio”. Su questa strada si colloca buona parte della sinistra del partito e anche due altri candidati alla presidenza: Pete Buttigieg e Kamala Harris. Il loro ragionamento è sostanzialmente questo: l’impeachment è un atto politico, non giudiziario, e non ha quindi bisogno della presenza di reati accertati. Si può chiedere la messa sotto accusa di un presidente per “tradimento, corruzione e alti crimini” e sicuramente quanto messo in atto da Trump per bloccare un’inchiesta rientra nella fattispecie prevista dalla Costituzione.

Un’altra parte consistente del partito non è però d’accordo. Anzitutto per una ragione tecnica. L’impeachment, che è messo in moto dalla Camera (dove i democratici hanno la maggioranza), si svolge poi in forma di processo al Senato, ora controllato dai repubblicani – che mai accetteranno di mettere sotto accusa il loro presidente. C’è poi una ragione più politica, esposta da un altro candidato alla presidenza, Bernie Sanders, che in queste ore dice: “Lo sforzo per incriminare Trump finirebbe per distrarre gli elettori dalle priorità di programma in vista delle elezioni del 2020”. Su una linea di prudenza anche la speaker Pelosi, che sottolinea “la condotta particolarmente non etica e non scrupolosa” di Trump, ma che mette in guardia dalle difficoltà quasi insormontabili che un procedimento di impeachment può comportare. La via segnata dalla Pelosi, che pare a questo punto maggioritaria, è un’altra: continuare le indagini e quindi mantenere alta la pressione sulla Casa Bianca. In questo senso si possono interpretare alcune mosse delle ultime ore: la richiesta, sempre di parte democratica, di vedere tutto il rapporto di Mueller e non una sua forma redatta, l’ordine di comparizione davanti a una Commissione della Camera per Don McGahn, l’invito a comparire, sempre alla Camera, per Robert Mueller. Sullo sfondo resta un’altra questione forse ancora più imbarazzante per Trump: la battaglia per rendere pubblici i suoi tax returns, le dichiarazioni dei redditi che i democratici chiedono vengano consegnate al Congresso.

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