Non basterà più accertare che nei Paesi di origine non siano in vigore leggi discriminatorie, ma si dovrà accertare che le forze di sicurezza abbiano messo in campo effettivi controlli e “adeguata tutela” per garantire il rispetto dei diritti degli omosessuali. Una sentenza della Cassazione, che ha accolto il ricorso di un cittadino gay della Costa d’AvorioBakayoko Aboubakar, minacciato dai parenti, ha aumentato i controlli necessari per negare lo status di rifugiato a tutti coloro che denuncino persecuzioni nel proprio Paese dovute al proprio orientamento sessuale.

La sentenza non va ad aggiungere elementi che non siano già previsti dalle leggi internazionali sul diritto d’asilo che, tra le altre cose, vietano il rimpatrio di persone che, per motivi politici, religiosi e di orientamento sessuale, vedrebbero la loro sicurezza messa a rischio, ma impone maggiori accertamenti da parte delle autorità che valutano le richieste dei richiedenti protezione internazionale. Una sentenza che è in controtendenza rispetto alle dichiarazioni di alcuni membri di governo che, più volte, hanno dichiarato che il diritto d’asilo sarà garantito a tutti coloro che scappano da guerre e nessun altro. “Noi dobbiamo dare chiaro segnale che chi scappa dalla guerra, donne e bambini devono essere messi in condizione di essere accolti, identificati e di arrivare in Italia e in Europa in aereo, non in gommone – aveva dichiarato a settembre il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, alla riunione informale dei ministri dell’Interno europei a Innsbruck – Per tutti gli altri non ci deve essere nessuna possibilità di chiedere asilo politico in Europa”.

Al migrante ivoriano la Commissione territoriale di Crotone non aveva concesso il diritto di rimanere in Italia sottolineando che “in Costa d’Avorio, al contrario di altri stati africani, l’omosessualità non è considerata un reato, né lo Stato presenta una condizione di conflitto armato o violenza diffusa“. Per i giudici della Cassazione, questa motivazione non è comunque sufficiente per portare al rifiuto dello status di rifugiato: è necessario valutare l’effettiva protezione garantita dallo Stato di origine, un Paese dove sono frequenti le azioni violente nei confronti della comunità Lgbt senza che lo Stato abbia messo in campo sufficienti misure per contrastarle.

Bakayoko Aboubakar aveva raccontato di essere di religione islamica, sposato con due figli e diventato oggetto “di disprezzo e accuse da parte di sua moglie e di suo padre”, che era imam del villaggio, “dopo aver intrattenuto una relazione omosessuale“. Aveva deciso di fuggire quando il suo partner era stato “ucciso in circostanze non note, a suo dire a opera di suo padre”, l’imam. Secondo la Cassazione “non è conforme a diritto” ciò che è stato deciso dalla Commissione prefettizia e dal Tribunale di Catanzaro nel 2014 e dalla Corte di Appello di Catanzaro nel 2016, ossia aver negato la protezione a Bakayoko senza accertare la mancanza di rischi per la sua incolumità in caso di rimpatrio.

Il caso adesso si riapre e sarà riesaminato da altri giudici nell’appello bis ordinato dagli ermellini. Nel verdetto, i supremi giudici scrivono che pur in mancanza di “riserve sulla credibilità” del profugo ivoriano, “non risulta che sia stata considerata la sua specifica situazione” e siano stati “adeguatamente valutati” i rischi “effettivi” per la sua incolumità “in caso di rientro nel paese di origine, a causa dell’atteggiamento persecutorio nei suoi confronti, senza la presenza di una adeguata tutela da parte dell’autorità statale”. “Non appare sufficiente – conclude la Cassazione – l’accertamento che nello Stato di provenienza, la Costa d’Avorio, l’omosessualità non è considerata alla stregua di reato, dovendosi accertare in tale paese la sussistenza di adeguata protezione da parte dello Stato a fronte delle gravissime minacce provenienti da soggetti privati”.

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