Di Cecilia Anesi, Cecilia Ferrara, Luca Rinaldi

Bruciare rifiuti a costo zero, evitare discariche e guadagnarci pure. È la strategia waste to energy che da una dozzina d’anni fornisce rifiuti ai cementifici. Questi intanto risparmiano su carbone e petrolio e vengono pure pagati. Sulla carta la soluzione perfetta ad uno dei maggiori problemi di quest’epoca e particolarmente caldo in Italia: lo smaltimento dei rifiuti. Chi difende questa pratica sostiene che i benefici siano molteplici: i rifiuti bruciano ad alta temperatura, rilasciando quindi poco gas serra rispetto ai carburanti classici e bruciare rifiuti significa meno discariche. Un’inchiesta dei due centri di giornalismo d’inchiesta rumeno Rise Project e italiano Irpi, coordinati dalla rete Organized Crime and Corruption Reporting Project, svela come questo patto tra cementieri e istituzioni sia meno “sano” di ciò che si vuole fare credere.

Il commercio dei rifiuti-carburante – quello che veniva chiamato “combustibile derivato da rifiuti” e adesso si chiama “combustibile solido secondario” – è un settore infiltrato dalla criminalità, anche organizzata. Spesso ai cementifici arrivano rifiuti che non dovrebbero arrivare. E anche quando i carichi in ingresso risultano del tutto regolari, i cementifici sono spesso dei giganteschi mostri costruiti vicino a centri abitati con relative ripercussioni sulla salute dei cittadini.

La Romania è diventata uno dei Paesi di punta di questo commercio. Lì, l’industria dei cementifici vale 750 milioni di euro l’anno e le affamate ciminiere grigie fagocitano enormi quantità di balle di rifiuti provenienti da tutta Europa. Dopo gli scandali legati all’infiltrazione di Cosa Nostra nelle sue discariche, la Romania non accetta più rifiuti stranieri nei propri invasi, ma vede di buon grado l’import di carburante-spazzatura per i cementifici. “Guarda le tegole, le ho cambiate otto mesi fa. Guarda lo sporco che le ricopre… In due anni saranno completamente nere. E’ per via dei copertoni e dei rifiuti che bruciano per soldi. E noi ci ammaliamo. Ecco come funziona l’affare…” racconta Marius Mangu, uno dei tanti contadini che vivono attorno al cementificio della Heidelbergcement, a Chișcădaga, mentre indica il tetto nuovo già ricoperto da uno strato di fuliggine alto tre dita.

Qua i cementieri monitorano le emissioni in autonomia e inviano i risultati al ministero dell’Ambiente. Per il monitoraggio, le aziende si rivolgono tutte allo stesso consulente. Un’impresa di Mihail Fâcă, fino al 2015 direttore dell’agenzia ambientale pubblica che dovrebbe controllare il lavoro dei cementieri. “Questo è il collettore dell’acqua piovana. Guarda che colore ha l’acqua – continua Marius – prima la davo agli animali, ora non mi azzardo più. Ho paura che si ammalino anche loro. Mi sono già morti sette alberi da frutto quest’inverno. I più sensibili, muoiono”. L’odore provocato dalle emissioni è terrificante: d’estate, quando la temperatura tocca i trenta gradi, il rischio è quello di collassare.

In Europa ai cementifici centinaia di euro a tonnellata di rifiuti bruciati. Ma la Romania fa eccezione: qui i cementieri accettano di essere pagati 10 euro a tonnellata. E’ chiaro che a intermediari e faccendieri della monnezza convenga trovare il modo di spedire balle di rifiuti lì. Un terreno fertile per le scorribande degli attori che popolano il variegato mondo del traffico illecito dei rifiuti in Europa.

I carichi irregolari dall’Italia
Costanza è il punto di arrivo dei carichi via mare. Al porto i controlli sono blandi, spesso inesistenti grazie alle mazzette. Ma i carichi viaggiano anche su ruota, passando dalla frontiera con la Slovenia e oltre. Il magistrato Tiberiu Nita per anni ha indagato traffici di rifiuti tossici e ritiene che l’affare del combustibile solido secondario sia di fatto fuori controllo. Nita spiega come i trafficanti di rifiuti abbiano escogitato un metodo perfetto per eludere i controlli durante le varie fasi del trasporto: nascondono rifiuti tossici di ogni tipo nel cuore del carico. Una operazione importante perché l’analisi si concentra su un solo strato del campione del rifiuto, dopodiché tutto viene imballato da una plastica brillante e venduto come carburante. Non è infrequente tra l’altro, hanno appurato le indagini degli ultimi decenni, che tra chi spedisce il rifiuto e chi lo riceve ci sia un accordo precedente riguardo lo strato da cui estrarre il campione da analizzare.

Una pratica sempre più frequente. Se ne sono resi conto nel 2016 gli ispettori ambientali romeni fermando un Tir in arrivo dall’Italia con a bordo un carico di Css. “Quando abbiamo aperto le balle – spiega un ispettore – abbiamo trovato rifiuti ospedalieri”. Che, dice la normativa rumena ed europea oltre che la logica, non possono essere bruciati nei cementifici. Il pm Nita ha aperto un fascicolo, le indagini sono attualmente in corso.

Il carico del camion fermato era solo il primo di una lunga fila: faceva parte del contratto per il trasporto di 12mila tonnellate del cosiddetto combustibile solido secondario stipulato tra un’azienda italiana e un broker romeno, Tiberiu Găneșanu. Nell’Est Europa è un broker di fama. Si difende si difende dicendo che “gli ispettori hanno aperto solo due balle e hanno dichiarato che fosse un carico illegale. Andate in Italia a vedere dove li imballano questi rifiuti: è tutto così pulito che non c’è nemmeno fetore, nell’impianto di imballaggio!”.

Ma chi aveva imballato quei rifiuti? L’azienda toscana Delca Energy. Situata a Vicopisano, è per metà di un immobiliarista livornese, Massimo Saporito e per l’altro 50 per cento di un’altra socia. La Delca Energy però è un’araba fenice, risorta dalle ceneri della società Delca Spa.

Dalla Toscana, con fango
La Delca si presenta come fiore all’occhiello del trattamento rifiuti in due ambiti: la produzione di combustibile derivato e il recupero, tramite spandimento sui terreni agricoli, di fanghi di depurazione civili e industriali. Lo spargimento dei fanghi in agricoltura è previsto dalla legge, purché i fanghi siano depurati e non contengano sostanze tossiche in concentrazioni dannose per uomo e ambiente. Un’attività avviata dalla Delca nei primi anni Duemila. Epicentro Peccioli: un borgo medievale di 5mila anime, tra Pontedera e Volterra, in provincia di Pisa, circondato da colline mozzafiato e uliveti. E’ qui che – ha confermato un processo arrivato in Cassazione – uno dei titolari della Delca, Domenico Del Carlo, ha spanto fanghi irregolarmente già nel 2008.

Dieci anni dopo, a settembre 2018, la Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze ha chiesto un nuovo processo per Del Carlo e suo fratello Felicino: gestione abusiva e traffici di fanghi di depurazione pieni di inquinanti,  i reati contestati. Quarantamila tonnellate di “concime” sversate tra le colline del Pisano, grazie alla compiacenza degli agricoltori del posto.

Le Fiamme Gialle hanno filmato di nascosto lo scarico tal quale dei liquami tra i campi, dimostrando come la procedura fosse fuorilegge. I fanghi, misti a pulper di cartiera, finivano anche in Basilicata e lì usati come combustibile in due fabbriche di mattoni. A trasportare questi ultimi, era un’azienda del Casertano ritenuta dagli inquirenti fiorentini, “vicina al clan dei Casalesi”, e “sin dalle origini riferibile direttamente o indirettamente a tale organizzazione criminale in quanto continuativamente a disposizione del clan almeno dagli anni Novanta per la commissione di traffici illeciti in materia di rifiuti”.

Stando alle dichiarazioni del pentito Gaetano Vassallo – mente manageriale per il traffico di rifiuti dei Casalesi – anche i Del Carlo si sarebbero trovati gomito a gomito con il clan in passato. Nel libro Così vi ho avvelenato, Vassallo racconta come tra il 1988 e il 1992 la Delca portato pulper dalla Toscana alla discarica Novambiente di Giugliano, nel cuore della Terra dei fuochi.

Anche a Peccioli c’è un’enorme discarica. Tra i gironi dell’inferno di creta grigia cinque autocompattatori scaricano rifiuti. I gabbiani girano in tondo e poi si gettano in picchiata. Eppure siamo lontani dal mare. “Chiunque abbia un po’ di cervello se ne è andato da qui”, dice Mario, uno degli abitanti che portano avanti la battaglia contro l’invaso. Tutt’attorno, i campi dove sono stati sversati i fanghi. “Questa zona qui, a destra e a sinistra – indica Mario – è dove hanno sparso i liquami tossici. Prima li spargevano e basta, adesso li sotterrano anche”.

Ormai sembra non esserci più distinzione tra la discarica e i campi circostanti: è tutto una fogna a cielo aperto. Il sindaco di Peccioli, Renzo Macelloni, è un elemento fondamentale del puzzle. Al potere ininterrottamente dal 1988, è passato dall’amministrazione comunale alla società pubblica che gestisce la discarica, la Belvedere, per poi tornare a vestire la fascia tricolore restando però dipendente della Belvedere. Quando, nel 2007, Macelloni è dirigente della Belvedere dà proprio ai fratelli Del Carlo l’incarico di costruire un impianto sperimentale di trattamento fanghi accanto alla discarica. I Del Carlo aprono una società ad hoc, la Belvedere ne acquisisce l’intero capitale, ma inspiegabilmente il progetto naufraga. In contemporanea, la Belvedere – società pubblico partecipata che ha come scopo la gestione della discarica – si da all’immobiliare. Sbarca infatti a Londra, investendo in un progetto di Massimo Saporito, l’immobiliarista livornese che oggi gestisce l’impero Delca.

Infatti, la Delca Spa dei Del Carlo viene liquidata nel 2015, mentre in contemporanea Saporito inaugura la Delca Energy: l’araba fenice della spazzatura. I Del Carlo, pur non comparendo nella nuova Delca, non sono mai usciti davvero. Quando i giornalisti di Rise e Irpi hanno chiesto lumi rispetto al carico fermato in Romania, è stato proprio Domenico Del Carlo a fornire delle spiegazioni. Alle domande inviate via email, la segreteria ha dichiarato che Delca non aveva mai inviato carichi nel paese dell’Est. Davanti alle insistenze dei giornalisti, è stato Del Carlo a rispondere ai reporter, dichiarando di avere sì avuto in passato un canale con la romania, ma di avere fermato l’export perché le condizioni commerciali non erano buone.

Da Brescia con furore
In realtà i bassi costi di smaltimento dei cementifici romeni continuano a fare gola al sistema rifiuti, che in Italia è sempre più impegnato a trovare nuove destinazioni dopo lo stop della Cina all’importazione degli scarti della plastica.

C’è un biglietto da visita che non può mancare nel portafoglio degli imprenditori del settore: quello del broker bresciano Sergio Gozza, classe ‘53, che dai primi anni Novanta contratta l’export di rifiuti in Europa e Nord Africa. Il suo profilo risponde a un’esigenza di mercato: mettere in contatto chi deve liberarsi del rifiuto con chi lo accoglie per smaltirlo in discarica o trasformarlo in combustibile. Un ruolo cerniera indispensabile, ma che spesso cammina sul confine tra lecito e illecito.

Lo scorso novembre, il broker bresciano emerge da un lungo procedimento giudiziario a suo carico, che al tribunale di Ancona finisce in prescrizione. Accusato di traffico illecito di rifiuti, con altri sedici indagati, nel 2010 Gozza finisce ai domiciliari in seguito ad una complessa indagine dei carabinieri del Noe coordinati dal pm Paolo Sirleo della Procura di Napoli e dal pm Rosario Lioniello della Procura di Ancona. Le indagini ricostruiscono un sistema secondo cui i rifiuti – perlopiù idrocarburi delle grandi petrolchimiche del Centro-Sud Italia, dall’area ex Rfi di Casoria alla raffineria di Gela, passando per la Caffaro di Colleferro – venivano classificati in modo errato e quindi smaltiti illecitamente, ai fini di un ingiusto profitto. Dopo mesi di appostamenti vicino agli impianti, gli inquirenti hanno dimostrato analisi alla mano come gli scarti non venissero lavorati ma semplicemente miscelati con altri rifiuti. Un traffico che ha coinvolto siti di stoccaggio dal Centro-Sud Italia alla Germania, come dimostra la mole di materiale analizzato dai giornalisti e racchiuso in 20 faldoni stipati tra la polvere della Procura di Ancona.

Ed è proprio uno dei trasporti verso la Germania a mettere nei guai il broker bresciano. Una prima spedizione, annotano gli inquirenti, riguarda fondami di serbatoi che “non possono essere smaltiti in discarica ma devono essere avviati a incenerimento, con conseguente smaltimento in discarica delle sole scorie”. Una operazione che necessita tempo e denaro. La soluzione è dunque quella di smaltire tutto in discarica “accompagnando rifiuti con analisi di altri campioni”, scrivono gli investigatori commentando le intercettazioni telefoniche agli atti dell’inchiesta. Più avanti il gruppo cercherà di mandare un altro carico verso la discarica tedesca Wev, in Sassonia, che facendo i controlli rileverà la presenza di arsenico (derivante dai rifiuti raccolti alla Caffaro di Colleferro) e ordinerà nuove analisi a campione che venivano comunque svolte da una società legata al gruppo. Per i magistrati e i periti incaricati la lavorazione e il trattamento dei rifiuti è stata “inesistente” e l’azienda bresciana avrebbe compiuto azioni dirette ad “aggirare i controlli da parte dei tedeschi come la preparazione di campioni, di carichi di prova e di analisi di laboratorio ad hoc”. Per i pm tutti gli imputati erano “pienamente consapevoli del ruolo svolto nella complessa filiera dello smaltimento illecito praticato”. Otto anni però non sono bastati per giungere a un verdetto del tribunale e a inizio novembre è stata dichiarata la prescrizione.

Nel giugno 2013 Gozza si trova ad affrontare un altro problema. Siamo al porto di Costanza, in Romania, e la nave Volgo Balt (già nota per traffico di rifiuti) è appena stata sequestrata. Rimarrà ferma due mesi: partita nel febbraio 2013 da Ortona, Abruzzo, con 2700 tonnellate di Css dirette all’incenerimento in Romania, viene bloccata perché le autorità sostengono che i rifiuti non siano stati adeguatamente trattati e classificati. L’intermediazione del carico era affidata alle società di Gozza. Alla fine gli scarti prenderanno la via della Bulgaria.

L’Abruzzo per Gozza è un luogo chiave: con la sua Ecovalsabbia si prepara a dare il via, tra le proteste degli ambientalisti, ad un sito di stoccaggio di Css che servirà come “deposito temporaneo, in attesa di poter essere imbarcato nella vicina area portuale”. La società Ecovalsabbia, contattata anche telefonicamente, non ha voluto rilasciare dichiarazioni né in merito all’indagine di Ancona, né in merito ai nuovi progetti.

Riceviamo e pubblichiamo
L’impianto Delca Energy riceve esclusivamente plasmix, cioè scarti provenienti da centri di selezione della frazione plastica della raccolta differenziata urbana, appartenenti alla Filiera COREPLA. Non fanghi, né altre tipologie di rifiuto.

Ebbene, contrariamente a quanto affermato nel Vostro articolo del 9.03, detta Società, in seguito alle debite comunicazioni alle Autorità competenti, ha effettuato verso la Romania un unico viaggio di prova (nel giugno 2016), non di CSS, ma di rifiuto CER 191204 (plastica e gomma), che doveva essere oggetto di successiva lavorazione nell’impianto di destinazione. L’attribuzione di tale CER avveniva mediante controlli analitici di laboratori accreditati italiani e rumeni ed in correlazione con i codici CER dei rifiuti ricevuti (Filiera COREPLA). Nel procedimento in corso, dove il GIP Rumeno ha rilevato come la formazione delle prove sia avvenuta in violazione di legge (lesione del diritto di difesa), si contesta esclusivamente l’attribuzione del suddetto CER 191204, in luogo del CER 200301 (rifiuti urbani non differenziati), comunque definito dalla normativa vigente “non pericoloso assoluto”. Le Autorità rumene, quindi, non hanno mai identificato detti rifiuti come pericolosi, né tossici né ospedalieri, come sostiene il Vostro articolo.

Parimenti Delca Energy non ha mai trattato fanghi, né mai si è occupata del loro spandimento in agricoltura.

Riceviamo e pubblichiamo/2
Ho visto un articolo il 9 Marzo su il Fatto Quotidiano che trattava di traffico dei rifiuti tra Italia e  Romania con il concorso della malavita organizzata. Mi sono messo a leggere con grande attenzione ma ho avuto subito l’impressione che fossero assemblate notizie diverse e di tempi diversi, ma non avendo una conoscenza, nemmeno sommaria, del tipo di traffico di cui si  parlava ho pensato che fossi io che non capivo bene.

Quando gli autori sono passati a parlare della Toscana e, in modo particolare di Peccioli, allora la cosa, qui, mi è apparsa subito chiara. O si trattava di notizie totalmente infondate o assemblate in modo tale per far apparire una realtà inquietante, ma completamente non veritiera. Una parte del discorso si regge su una presunta testimonianza di Mario, per fortuna una persona conosciuta da tutti nel nostro Comune. Sostiene: “questa zona qui, a destra e a sinistra è dove hanno sparso i liquami tossici. Prima li spargevano e basta, adesso li sotterrano anche. Ormai sembra di non esserci più distinzioni tra la discarica e i campi circostanti: è tutto una fogna a cielo aperto”. È un’affermazione totalmente infondata!

Circa due anni fa ha preso avvio un’indagine della procura distrettuale di Firenze su di un presunto spandimento fanghi inquinanti in Toscana che individuava anche nel nostro territorio circa 250 ettari sottoposti ad indagini. Il Comune in quella circostanza (a tutela del proprio territorio) ha promosso un’indagine su campo a tappeto su tutti gli ettari sottoposti ad indagine per capire come stavano realmente le cose ed essere in condizione di prendere eventuali
provvedimenti a tutela di tutti i produttori. Il risultato analitico ha accertato che i terreni in oggetto non contenevano nessun inquinante. A tale proposito alleghiamo una pubblicazione diffusa a tutta la cittadinanza che fa chiarezza sulla questione.

Dall’altra da ricostruzioni inesatte. “Nel 2007 la Belvedere dà proprio ai fratelli Del Carlo l’incarico di costruire un impianto sperimentale di trattamento di fanghi accanto alla discarica. I Del Carlo aprono una società ad hoc, la Belvedere ne acquista l’intero capitale ma inspiegabilmente il progetto naufraga. In contemporanea la Belvedere società pubblico/privata sbarca infatti a Londra investendo in un progetto di Massimo Saporito, l’immobiliarista che oggi gestisce l’impero Delca”. Vediamo come stanno veramente le cose. Nel 2017 la Belvedere ha acquisito il 50% di una società già costituita dalla Delca non ancora operante per la costruzione di un impianto di trattamento fanghi e produzione di energia elettrica. Poco dopo più di un anno la Belvedere promuove un atto di responsabilità nei confronti di Del Carlo Felicino amministratore unico della stessa società perché ritenuto incapace di rispettare gli impegni presi all’atto dell’ingresso della società. Viene allontanato il Del Carlo e la Belvedere acquisisce tutta la società per scioglierla, subito dopo, attraverso un processo di fusione con Belvedere. Tutto questo avviene molto prima che nei loro confronti siano avviate indagini pubbliche che chiariranno molti lati oscuri.

Per quanto riguarda investimenti della Belvedere su progetti dell’immobiliarista Massimo Saporito la notizia è totalmente priva di qualsiasi fondamento. Inoltre il signore in oggetto risulta totalmente sconosciuto alla stessa società.

È già la seconda volta che il vostro giornale parla di Peccioli, della Belvedere, riportando fatti e cose non corrispondenti al vero. Mi chiedo perché ciò avvenga, ho guardato molto spesso al Fatto Quotidiano e alle sue inchieste con simpatia, ma di fronte a queste uscite mi vengono dubbi e perplessità che vorrei molto volentieri poter fare a meno. Chiedo ai giornalisti estensori dell’articolo di provvedere alle dovute correzioni e al direttore Peter Gomez, che ho avuto il piacere di conoscere personalmente, di intervenire per ricostruire la verità dei fatti.

Renzo Macelloni
Sindaco di Peccioli

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