Cinema

Elio Petri, 90 anni fa nasceva il padre rinnegato di un cinema che non c’è più

In Italia, quella del cinema politico o d'impegno civile è stata una stagione incendiaria. Battezzata nel 1962 da Francesco Rosi con Salvatore Giuliano terminò bruscamente nel 1976, dopo anni intensissimi. Per una strana profezia o per un'orrida coincidenza, a decretarne la fine fu proprio l'autore che più di tutti aveva contribuito a renderla grande

di Marco Colombo
Elio Petri, 90 anni fa nasceva il padre rinnegato di un cinema che non c’è più - 2/3

La trilogia della nevrosi – La collaborazione con l’attore milanese segna il periodo più importante per la carriera di Petri. Le illusioni del ’68 si sono già raffreddate quando esce nelle sale Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970). Schizofrenico, sfacciato, urticante, il film è un pugno diretto allo stomaco dei benpensanti. Lo stile è barocco e straniante, mentre la trama è tanto assurda quanto sinistra e plausibile. La cinepresa segue, infatti, le orme di un innominato “Dottore”, un funzionario di polizia (Volonté, appunto) che, dopo aver ucciso la propria amante, non fa nulla per nascondersi. Anzi, dissemina sulla scena del delitto indizi della sua colpevolezza, convinto che la condizione di uomo dello Stato basterà a proteggerlo da ogni accusa. Un lucido delirio di onnipotenza che il finale aperto sembra però confermare. Sostenuta dalla sceneggiatura di Ugo Pirro e dalla musica di Ennio Morricone, la pellicola si guadagna l’Oscar al miglior film straniero ma attira anche un mare di critiche. Molti, infatti, vi leggono un chiaro rimando alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli e alla figura del commissario Luigi Calabresi. Accanto a chi saluta l’opera come una ventata di democrazia e maturità per l’intero Paese, ecco dunque accalcarsi chi la addita come un attacco diretto alla Giustizia e alla Polizia, accusando Petri di voler lucrare sulla cronaca politica dell’epoca.

Tuttavia, se con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto le critiche più feroci erano arrivate dagli ambienti di centrodestra, con La classe operaia va in paradiso (196) è invece lo schieramento opposto a incendiarsi. Del resto, il film non restituisce esattamente l’immagine che il Pci si sarebbe aspettato da “un compagno”. Dando corpo e parola all’operaio mutilato Ludovico Massa, detto Lulù, l’interpretazione di Gian Maria Volonté, infatti, denuncia l’orrore delle catene di montaggio e di una fabbrica diventata pura alienazione. Ma non solo. Petri scava nelle storture di un sindacato ipocrita e ritrae i movimenti studenteschi di sinistra come orde di parolai. Un oltraggio insopportabile per la “controcultura” dello Stivale. All’estero però l’assoluta originalità della lettura marxista del regista italiano piace. E non poco. Al XXI Festival di Cannes, Elio si aggiudica il Grand Prix ex aequo con Il caso Mattei di Francesco Rosi, in cui compare ancora lo stesso Volonté, omaggiato di una menzione speciale. E dopo aver indagato il potere e il lavoro, nel 1973 Flavio Bucci e Ugo Tognazzi completano, infine, la trilogia con La proprietà non è più un furto. Che affronta la banca, l’avidità e l’invidia nella terza nevrosi, quella del denaro.

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