Mancano ormai meno di 24 ore al voto della Camera dei Comuni sull’accordo tra governo britannico e Unione europea sull’uscita del Regno Unito dall’Ue. Meno di 24 ore in cui la premier Theresa May dovrà decidere la prossima mossa da compiere per limitare i danni, sia per il Paese che per il suo futuro politico, di una quasi certa bocciatura del Parlamento. Le strade da percorrere per la leader dei Conservatori sembrano essere soltanto due, entrambe molto tortuose: rispettare la volontà popolare e lasciare che il paese si ritrovi a fronteggiare una Brexit senza accordi, oppure, opzione che lei sta cercando di evitare, arrivare a un nuovo referendum e, in caso di “Remain”, utilizzare lo stop unilaterale all’applicazione dell’articolo 50 che, così, permetterebbe alla Gran Bretagna di rimanere membro dell’Unione. Ma a Bruxelles si starebbe già discutendo una terza opzione: concedere a Uk e Ue altro tempo per portare avanti i negoziati.

La posizione di Theresa May sulle conseguenze di un mancato accordo è chiara ed è stata più volte ribadita dal primo ministro: o si firma questo accordo, che rispetto all’ultima proposta presenta ulteriori concessioni sul punto caldo del backstop – formula che eviterebbe il ritorno di un confine fisico tra Irlanda e Irlanda del Nord inserendo però la Gran Bretagna in una sorta di unione doganale – oppure si va verso una no deal Brexit. Convinzione, questa, che l’inquilina del 10 di Downing Street ha ripetuto anche nella sua apparizione di oggi, 14 gennaio, in una delle roccaforti dei Brexiteers, Stoke-on-Trent. Il suo discorso sembra rivolto soprattutto ai membri del Parlamento che hanno intenzione di votare contro l’accordo raggiunto dalla May con l’obiettivo di indire un nuovo referendum e bloccare il processo d’uscita britannico. La fiducia delle persone nel processo democratico “subirebbe un danno catastrofico”, ha dichiarato la premier ricordando che il dovere del governo e della politica è quello di attuare il risultato del referendum. Al contrario, spiega, i britannici non perdonerebbero questa violazione della volontà popolare. Pur dichiarando di voler evitare con qualsiasi mezzo questa ipotesi, Theresa May ha spiegato che “mentre un’uscita senza accordo rimane un rischio serio, in base agli eventi degli ultimi sette giorni credo che l’epilogo più probabile sia una paralisi del Parlamento che rischia di compromettere l’uscita dall’Unione europea”.

Mentre si cerca di arginare l’acqua che sta affondando la nave della Brexit, gli attori in campo pensano anche ai propri vantaggi politici, giocando allo scaricabarile. Theresa May punta il dito contro coloro che vedrebbero in un fallimento della Brexit un modo per colpire al cuore il primo ministro e un’ala del partito conservatore, mentre questi indicano proprio la premier come unica responsabile di un pessimo accordo che penalizzerà la Gran Bretagna senza liberarla da alcuni, troppi a loro dire, obblighi nei confronti di Bruxelles.

Tra questi attori c’è certamente Jeremy Corbyn. Il leader laburista già pregusta il voto negativo della House of Commons e ha dichiarato di essere pronto a trovare un accordo con May e sostenere il documento nato dai negoziati con Bruxelles. Ma le condizioni per la leader dei Conservatori sono inaccettabili: un’unione doganale permanente. Un compromesso che scatenerebbe l’ira dei Leavers nel partito. Allora, Corbyn ha già promesso di presentare il prima possibile una mozione di sfiducia nei confronti di May, puntando alle elezioni anticipate e giocarsi il tutto per tutto in un testa a testa a quota 36-40% con i conservatori, secondo gli ultimi sondaggi. Ma è proprio sulla Brexit che il leader laburista dovrà prima o poi sbilanciarsi, un vero grattacapo che potrebbe causare una fuga di voti dal suo partito: optare per l’uscita vorrebbe dire accontentare le classi operaie dei distretti industriali inglesi, puntare a un nuovo referendum, invece, creerebbe malumore in esse ma accontenterebbe la base giovane ed europeista dei Labour che, secondo gli ultimi sondaggi pubblicati dal Guardian, sarebbe al 72% favorevole a un nuovo voto e, in quel caso, all’88% a sostegno del Remain.

Una Brexit senza accordi, però, non metterebbe in ginocchio solo la Gran Bretagna, ma infliggerebbe un duro colpo anche all’Unione europea, in special modo a tutti quei Paesi membri che intrattengono fitti scambi commerciali con il Regno. È anche per questo che a Bruxelles si sta già discutendo sulla possibilità di allungare il periodo di transizione e di negoziati con Londra per cercare di superare il blocco politico in Uk. Ipotesi che causerebbe, però, un grave cortocircuito sul funzionamento delle istituzioni europee, visto che mancano ormai meno di cinque mesi alle elezioni con le quali verrà nominato un nuovo Parlamento senza i deputati britannici e con una diversa redistribuzione dei seggi tra gli Stati membri. Un’eventualità a cui le alte sfere europee stanno pensando, ma che non sono pronte a discutere pubblicamente, come ha dichiarato venerdì Jean-Claude Juncker durante la conferenza stampa con il presidente della Romania Klaus Iohannis a Bucarest: “Non ho intenzione di alimentare speculazioni basandomi su delle ipotesi”.

Twitter: @GianniRosini

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