Galeotto fu il solito furgoncino andato fuoristrada. Se il Michael Myers (alias The Shape) di Halloween è tornato su grande schermo, è colpa anche del solito incidente notturno – accadde anche in Halloween II di Rob Zombie (2009) – avuto dal camioncino che sta inopinatamente trasferendo da un manicomio ad un altro l’enorme muto inquietante corpo di uno degli assassini slasher più folli della storia del cinema. Il dolcetto, e non lo scherzetto, è a firma David Gordon Green, ed è l’autorizzato sequel rispetto al primigenio cult di John Carpenter del 1978. Film cesura tra l’horror più politico, ma comunque parecchio splatter dei Romero, Hooper e compagnia fine settanta, e la goliardata mefitica gore di un Raimi ed epigoni primi ottanta, il film di Carpenter s’impresse visivamente nell’immaginario cinefilo proprio per questa sua commistione ponte tra un e vero proprio encomio solenne dello slasher movie e la febbrile, irrequieta scelta stilistica di una macchina da presa in soggettiva (per l’assassino) e in straordinario sbilenco perenne movimento per i quadri d’insieme delle vittime.

Dicevamo che Green non manca di rispetto a Carpenter (che qui dona il soundtrack originale). Anzi, scavalca l’insistenza di Rob Zombie sugli effetti macabri e raccapriccianti di un gore insistito (Halloween II e Halloween The Beginning rimangono i migliori titoli di un franchise che tra remake e reboot prevede ben undici titoli), e staziona in quel limbo di beffarda osservazione dell’efferatezza delle gesta criminali di Michael (l’uccisione dei due fidanzatini a casa del bimbo afroamericano è clamorosamente divertente) come se il destino non avesse atteso altro che il 2018 per tornare “naturalmente” ad Haddonfield (Illinois) e seguire cos’è accaduto al pazzo killer e alla sopravvissuta Laurie, una Jamie Lee Curtis nonna 60enne super attrezzata con pistole, carabine e fucili a pompa, dopo quaranta anni di angosciante silenzio.

Citando, anzi riportando alla luce la celebre sequenza in soggettiva con cui Carpenter aprì il suo Halloween (due buchetti per gli occhi, il coltellaccio da cucina fulmineo in campo, i seni prosperosi della prima vittima sorella di Michael in primissimo piano), Gordon Green aggiorna il file concentrandosi sul desiderio di vendetta di Laurie. In questo l’Halloween 2018 è come un’unica sequenza psicologica per tutto il film, cadavere dopo cadavere, per vedere le due star (interpretate dai due attori giovani all’epoca, la Curtis e Nick Castle) affrontarsi all’interno di una casa fortino nel bosco che si fa trappola inattesa. La forza malvagia soprannaturale di Michael è sempre la stessa, anzi con la vecchiaia sembra come acquisire una ancor più veritiera immortalità. Mentre Gordon Green e gli sceneggiatori Danny McBride e Jeff Fradley fanno vivere al protagonista brevi deviazioni di senso sul percorso dello scontro finale con Laurie (l’incontro con due “wackadoodle” come i giornalisti fanatici e lo psichiatra altrettanto imprevedibile) conducendolo a ridosso di personaggi secondari da seccare come birilli, e donandogli un’atletica ubiquità che solo Freddy Krueger o il clown di It sembravano avere. Poi esiste anche una linea narrativa del trauma che non si dimentica e si tramanda di generazione in generazione, con Laurie che ha forgiato nella paura e nell’attesa del giorno del giudizio contro Michael la vita di figlia e nipote. Eppure sembra come un sottotesto che serve giusto per lanciare l’assist al prossimo sequel e molto poco all’equilibrio di questo Halloween che sta bene in piedi da solo. Spiritosa la battuta (andiamo a memoria) in mezzo al caos del ritrovamento delle tracce di Michael che sembra tratta da Rambo. Il medico: “Lui (riferito a Michael ndr) dov’è?”; lo sceriffo: “Me lo dica lei!”.

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