Non ho mai avuto paura di Cuffaro. Negli anni del suo potere, quando con percentuali bulgare vinceva in Sicilia e dietro la sua segreteria c’era la fila di clientes, non solo ero da un’altra parte ma fatico a ricordare il numero di comizi, manifestazioni, iniziative per denunciare un modello di governo che, come puntualmente accadde, avrebbe portato nel baratro quest’Isola.

Ho partecipato a decine di tappe del tour in cui nelle piazze siciliane si proiettava “La mafia è bianca”, che metteva in risalto tutti gli interessi della politica e della mafia nel settore della Sanità. L’ho fatto negli anni in cui i siciliani preferirono affidarsi proprio a Cuffaro facendolo vincere alle elezioni regionali, era il 2006, su Rita Borsellino.

Ed ero tra le migliaia di palermitani che sfilarono in corteo fin sotto la sede della presidenza della regione il giorno in cui Cuffaro si dimise. E forse è anche perché non devo ricostruirmi una verginità anticuffariana che non ho trovato motivo di scandalo nell’iniziativa che si è tenuta il 13 settembre all’Ars. O meglio, un motivo di reale scandalo in questa vicenda c’è ed è la vergognosa, come già ci ricordano i rapporti annuali, condizione carceraria in Sicilia ed in Italia. Ma di questo pare interessi a pochi, quasi a nessuno.

Cuffaro è un ex detenuto, ha una condanna e probabilmente ancora tante, troppe, sono le ombre su una lunghissima stagione di potere e su un sistema di potere che in Sicilia ha spadroneggiato. Durante quegli anni pochissime erano le voci di opposizione. Nelle istituzioni e nella società. Un sistema ramificato, forte, con alleati insospettabili.

Un sistema che faceva paura a molti. Perché starne fuori significava stare fuori dagli affari, dalle tante prebende di mamma Regione, dai piccoli e grandi vantaggi del potere. Faceva paura il cuffarismo, anche per quel modo molto siciliano di trattare il potere fatto di baci sulle guance al posto delle strette di mano, di indicibili accordi capaci di far passare di mano milioni di euro davanti ad un caffè in qualche retrobottega.

Faceva paura, a chi lo avversava, anche perché sembrava inscalfibile. Imbattibile. Intramontabile. Anche alla vigilia della condanna in primo grado il 53% dei siciliani lo votò, ed anche dopo la condanna sempre i siciliani lo mandarono in Senato con una messe di voti. Acuendo quella sensazione di paura, quel “non esiste una speranza per questa terra” che, alle volte, si insinua nella mente di chi con fatica continua a pensare ad un futuro altro possibile per la Sicilia.

Cuffaro e quel suo modello di governo e di gestione del potere era la condanna perpetua a cui eravamo sottoposti. Lo era con Cuffaro presidente, lo sarebbe rimasta con i governi successivi zeppi di uomini e donne di quella stagione. Sembravamo sempre consegnati alla sconfitta. Anche dopo la condanna definitiva di Cuffaro, anche dopo l’arresto, anche dopo aver letto sulle pagine dei giornali di come l’antimafia diventava terreno per fare carriere e affari. Almeno io cosi mi sono sentito, spesso, troppo spesso. Sconfitti sul piano sociale e culturale anche più che dai risultati che venivano dalle urne elettorali.

Perché il punto non era Cuffaro, uomo politico condannato per favoreggiamento, era quel modello politico e sociale. Che non ha scontato pene detentive.

Così mi sentivo anche giorno 13, mentre mi ritrovavo con una certa curiosità nelle stanze dell’Assemblea regionale sciliana. Perché sapevo che, opportuno o meno, Cuffaro avesse tutto il diritto di raccontare ad una platea il disastro della condizione carceraria in Sicilia. Eppure, anche se consapevole di questo, avevo una sensazione strana. Anche mentre mi ritrovavo ad annuire ad alcuni passaggi dell’intervento dell’ex presidente della regione. Poi, ad un certo punto, ho capito. Ho capito che quella giornata, in realtà, segnava la nostra vittoria. La segnava proprio con la possibilità dell’ex detenuto Cuffaro di parlare della sua storia carceraria proprio in quelle stanze che lo avevano visto dominus della politica siciliana per dieci anni.

Avevamo vinto noi, avevamo vinto noi che nel 2006 pensammo di poter cambiare il destino della Sicilia con Rita Borsellino e che ci ritrovammo a piangere il giorno dopo il voto. Avevamo vinto noi che combattemmo contro i mille divieti posti dai sindaci di comuni dell’entroterra siciliano che misero mille ostacoli alle proiezioni pubbliche de “la mafia è bianca”. Avevamo vinto noi che nei gazebo e durante i volantinaggi ci sentivamo sfottere, perché “tanto vince Totò”.

Avevamo vinto perché non avevamo più paura, tanto da poter ascoltare Cuffaro e dire che sì, il vero scandalo è la condizione carceraria in Sicilia ed in Italia.

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