Il mondo in cui varrebbe la pena di vivere è certamente quello in cui s’insegnasse a rispettare se stessi e gli altri, la gente contasse per ciò che è, non per quanto ha in denaro o influenza, gli imbroglioni fossero smascherati alla prima battuta, ciascuno potesse gestire come meglio crede il proprio destino mortale e le guardie accorressero dovunque un energumeno cerchi di mettere il morso al prossimo. Stando ai segni, tuttavia, sono poche le probabilità che la storia vada in questo senso.

Lasciamo perdere la proliferazione dei tanti bonzi dai precedenti illustri, intenti alla manutenzione del loro prestigio mentre ponti autostradali crollano – magari proprio per mancanza di manutenzione – e pronti a sottoscrivere incandescenti dichiarazioni di principio quando non contano niente, salvo rimangiarsi la parola se l’adempimento li esponesse ai risentimenti di qualche gaglioffo. Come pure il sottosuolo del sentimento, che al netto delle fioriture di kitsch, prediche flautate, epidemie di sorrisi, fiere di bontà, singhiozzi in prosa, non offre uno spettacolo migliore. Pensiamo, piuttosto, per un attimo, alla contesa per il potere nella quale certuni sono già battuti prima di scendere in campo mentre altri si muovono come dei predestinati a vincere.

Non c’è nulla di misterioso nella vicenda dei successi e degli insuccessi: le istituzioni configurano un modello umano e parte favorito chi gli somiglia di più. Spesso il personaggio archetipico appartiene a un genere inferiore, si mette la dignità sotto i piedi, intriga come un ossesso, non sa coniugare i verbi, ha i principi morali di un alligatore, cova voglie smodate ed è privo d’inibizioni. Sebbene l’incapacità di vergognarsi – uno dei vantaggi del vuoto morale – ponga l’adoratore del potere agli antipodi della kalokagathia greca, questa specie d’uomo è d’una vanità forsennata: dà e rimangia la parola, fa in pubblico figure da cane e ricomincia dopo un attimo gonfiandosi di livore in attesa dell’occasione di sfogarlo.

Consideriamo, poi, come nella valutazione di una persona entrino i precedenti e in questo senso – almeno sotto il profilo d’un’etica calvinistica degli affari – ha un significato l’aver accumulato molto o poco. Nella nostra società, però, il successo corrisponde a modelli antropologicamente scadenti: il gesto assiduamente ripetuto di furbizia bottegaia, di frode o di sopraffazione, frutta del denaro ossia una somma rappresa di qualità deteriori il cui effetto tossico si moltiplica tanto più uno ne guadagna, sino a rendere la vita impossibile agli altri. Nella misura in cui discrimina le sorti degli individui, il denaro è, insomma, il mediatore di una spirale perversa: sovrappone un passato spesso ignobile al futuro, il morto al vivo, l’esistente al possibile.

Il vertice del comportamento meritorio secondo l’etica corrente è, peraltro, la mortificazione della ragione: nel credere cose plausibili, che merito c’è? Gli affari importanti, dalla sedicente filosofia all’oratoria politica, roba da giudicare secondo la misura del successo pratico, si fondano sull’uso insensato delle parole: i contendenti parlano come se ragionassero e invece conducono un crudo gioco d’astuzia o di violenza, mentre gli ascoltatori, dal lato loro, non ricercano il significato più di quanto sentano la contraddizione.

Nella condizione ambientale adatta, si possono dire impunemente cose inverosimili: la media degli ascoltatori non va per il sottile e i pochi capaci di una confutazione, se sono furbi, fingono di credere; in ogni caso, nessuno li prende sul serio. Un tratto tipicamente nevrotico della psicologia di massa, notava già Sigmund Freud in Group Psycology, è del resto la difficoltà di distinguere i sentimenti dai fatti: nell’orwelliano 1984: “Il primo e più semplice grado di disciplina che si può insegnare persino ai bambini in tenera età, nel nuovo linguaggio si chiama crimestop“, parola che “significa sapersi fermare come per istinto alla soglia di ogni pensiero pericoloso, incluso il potere di lasciarsi sfuggire le analogie, non rilevare errori logici, fraintendere gli argomenti più semplici, se sono contrari all’Ingsoc, e provare noia e ripulsione di fronte a ogni ordine di pensieri passibile di svolgimenti eretici. Crimestop, in breve, vuol dire stupidità protettiva“.

E del verminaio che si scopre sollevando la parola “ortodossia”, ne vogliamo parlare? Nella sua accezione perfetta, l’ortodossia consiste nel non pensare affatto, ma essendo difficile arrivare al vuoto, occorre lavorare sulle parole affinché, aboliti i termini sospetti, nessuno rischi un delitto di pensiero. Ogni amputazione del vocabolario, in quanto contrae l’area del pensiero, è salutare. Se le parole sono opache e chiuse, esse consentono di rompere il rapporto tra laringe e cervello. L’ideale sarebbe il “pensiero duplice”, vale a dire l’uso dell’inganno col fermo proposito della più perfetta onestà; per arrivarci, tuttavia, è necessario un lungo tirocinio, dovendo intrattenersi due opinioni opposte, accettandole entrambi; il che significa contentarsi di ogni cibo e digerire opposizioni come ciottoli.

Quanto alle macchinazioni intese a predeterminare il pensiero altrui, spira un’aria di sinistro delirio; per fare il cacciatore d’eresie o l’aguzzino delle idee ci vuole una misura non comune di ottusità, frustrazioni, impulsi malsani. Gli orditori del male, per vero, sono pochi ed essendo degli psicotici, in una società comme il faut, sarebbero isolati. Purtroppo, sono molti invece gli omiciattoli prudenti, ai quali non passa neppure per la testa di sfidare il paranoico vorace, che anzi cercano come protettore o alleato, pronti a ogni servizio: dal fare la spia all’inscenare provocazioni; dal vendere l’amico al tradire il maestro; e senza il minimo trasalimento di cattiva coscienza, trasmettono le chiacchiere, applaudono, deprecano, inveiscono, sogghignano, sussurrano, tacciono compunti, senza il minimo trasalimento.

Non è casuale, infine – ed è un brutto segno anche questo -, che siano sempre più coloro che, in questa disgraziatissima congiuntura, si dedicano a corvées d’echaffaud contro l’intelligenza, su commissione del potente di turno: ogni individuo dalla psiche plumbea e pronto ai comandi cova un boia. Ma come è necessaria al boia una qualche abilità manuale, altrimenti sarebbe fin troppo elevato il rischio di assistere “avec horreur” a scene patibolari sul tipo di quella malamente celebrata nel 1642, quando Cinq-Mars e Le Thou “patirono” ad opera del decrepito beccaio che aveva sostituito il boia en titre, indisposto, o dell’incidente capitato a Luisa Sanfelice, così non possono essere commissionati a individui queruli, velenosi, “gauches” fino al gesto suicida, atti persecutori i quali puntano ad assassinii morali, che se eseguiti da mani grossolane squalificano sicari, mandanti e beneficiari.

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