“Vietato passare o sostare sotto i carichi sospesi”. Quattro anni dopo il crollo del tetto, un pannello arrugginito continua a urlare le regole della prudenza aziendale mentre una piramide di putrelle spezzate e di lastre di amianto si apre all’azzurro del cielo e all’allegria fuori luogo di grilli e cicale. Sino al 2012 la cartiera di Bormida (Savona) dava lavoro a 50 persone e ad altre 50 con l’indotto.

Dopo che è fallita, nel 2012, è iniziato l’assedio degli elementi, come se la più grande macchia verde d’Europa, quella appunto della Valbormida, volesse cancellare o ingoiare la carcassa della fabbrica. Nel 2014 la neve ha schiantato il tetto e due anni dopo il fiume in piena ha invaso il capannone lasciando sul pavimento un greto sabbioso disseminato di detriti. Mentre il vento suona come un organo i rottami del tetto, dozzine di pesci in uno stagno fra le strutture di cemento che sostenevano le enormi macchine della cartiera.

“Qui c’era lo spappolatore idraulico chiamato ‘pulper’” – racconta Giampiero Icardi che alla cartiera ha lavorato 33 anni – “frantumava le balle di carta che arrivavano dai tir. Facevamo scatole da imballaggio per gli alimentari, ma dato che l’acqua non veniva rinnovata, la carta dopo un po’ ha cominciato a puzzare e così, i nostri clienti migliori, Barilla, Ferrero, Agnesi, hanno iniziato a contestare il prodotto sinché non lo hanno più voluto”.

Nel 2007 la Regione Liguria era pronta a stanziare 700mila euro per un depuratore, ma per non accollarsi i costi di gestione la ditta preferì ricorrere a procedure chimiche. “Ma come fai a mettere i biscotti del Mulino Bianco in un contenitore che puzza?” – dice Icardi – “Così le scelte sbagliate della società ci hanno portato al fallimento e da allora tanti miei colleghi sono ancora disoccupati. Su 50 persone, solo 15 hanno trovato lavoro. Gli altri si arrabattano, ma molti han dovuto andar via lasciando il paese semideserto”.

Lungo la strada che costeggia il fiume Bormida sino a Millesimo, la scritta “vendesi” ricorre su dozzine di case, vecchie e nuove. “È il risultato dello spopolamento – spiega Ezio Salvetto, il sindaco – dopo l’industria è venuta meno anche l’agricoltura di sussistenza. Quasi metà delle case sono in vendita perché i proprietari non ce la fanno a pagare le tasse. Sono rimasti 830 abitanti, la metà dal Dopoguerra. Anche perché la gente abbandona le borgate periferiche dove è diventato difficile accedere con la neve e il maltempo” .

Dal luogo in cui parliamo, Pallareto, una delle 28 borgate di Murialdo, la telecamera di Mario Molinari inquadra il ponte sul Bormida divelto dall’alluvione e da una montagna di detriti che ha agito come un ariete. Chiedo al sindaco se le case in vendita trovino acquirenti. “Pochissimi ma sono venuti anche dal Belgio e dalla Svezia – risponde – un belga si è ha comprato una casa con 5mila euro. Gli costa più il viaggio che la casa, ma lui ama questa campagna”. Ma che fine hanno fatto gli operai della cartiera? “I più fortunati avevano la moglie con un lavoro, ma chi ha più di 45 anni non trova nulla” – risponde Icardo – “I fratelli Roascio hanno lavorato alla cartiera da 15 a 18 anni e si son trovati entrambi disoccupati con famiglia carico. Oggi tagliano e vendono legna ma è una risorsa minima. Si parla di sopravvivenza, non di vita”.

Claudio T, un altro collega con moglie e due figli, ha girato dal savonese al basso Piemonte e la risposta è sempre stata la stessa: ‘Lei ha superato i 50 anni e noi cerchiamo persone giovani’. Oggi coltiva pesche e cerca di campare con quello. Ha una figlia di 19 anni che studia e un’altra di 23 che lavora come giornalista part-time. Giampiero P. ha 59 anni. La sua compagna fa qualche ora al ristorante ma è dura anche perchéquando lavorava aveva acceso un mutuo per ristrutturarsi la casa. Con altri compagni ci siam persi di vista. Un’azienda è come una famiglia. Quando crolla molti si chiudono in se stessi e non escono più. È terrificante restare senza lavoro. Distrugge le persone”.

Oggi Murialdo fa parte dell’Area di crisi complessa, cioè di quel piano di sussidi di Stato che dovrebbero risollevare la provincia di Savona, la più depressa del Nord. “Forse c’è qualche spiraglio” – racconta ancora Ezio Salvetto – “Il pastificio La Ginestra di Millesimo è in trattative per venire qui a produrre pasta fresca. Cerca un sito con l’aria buona, senza inquinamento e qui l’acqua è la così buona che potremmo berla senza filtri . Darebbe lavoro a 15/20 persone e avrebbe un impatto positivo anche sull’agricoltura, perché per fare della pasta ripiena occorrono prodotti agricoli, il che consentirebbe di recuperare alcune delle terre incolte”.

Non c’è invece nessun pretendente per l’enorme carcassa della cartiera: “Territorio ed energia, una ditta di Millesimo” – racconta Icardo – “Voleva rilevare il capannone per produrre pellet, ma alcuni carotaggi hanno rivelato degli scarti di lavorazione in plastica interrati negli anni 60, quando non c’erano le leggi di oggi. A quel punto il curatore fallimentare ha chiesto all’acquirente una fideiussione di 900mila euro e l’impegno a bonificare l’area, così l’acquisto è andato in fumo. La cosa grave è che le istituzioni qui hanno fatto solo passerella”.

Gli chiedo che cosa facciano oggi i giovani di Murialdo “Una quindicina dai 20 ai 25 anni” – risponde – “sono andati a fare la stagione i nei ranch australiani, per sei mesi”. In Italia li chiamerebbero “migranti economici“.

Articolo Precedente

Italiani come noi – Rider: nuovo lavoro tra sfruttamento e opportunità. “Disposti a pagare di più per garantire diritti?”

next
Articolo Successivo

Al via il Piano lavoro della Campania. Cosa dobbiamo aspettarci?

next