A Bologna, periferia ovest della città, stanno tagliando un bosco urbano per costruirci 1.300 nuovi alloggi, parcheggi, un nuovo plesso scolastico e strutture commerciali. La motivazione del Comune è quella di “bonificare” un’area selvatica passata negli anni ’70 dai militari al Demanio e da allora cresciuta liberamente. Il Comune prevede anche 20 ettari di parco (sui 47 ettari di bosco attuali) e userà i fondi derivati dalle compensazioni per ristrutturare lo Stadio: “Almeno non ne costruiamo uno nuovo, come hanno fatto altrove, sottolinea il Sindaco Merola”.

Non è una gran consolazione, e nemmeno una gran compensazione: chi compenserà infatti la CO2 emessa dalla nuova colata di cemento, dall’aumento di traffico e smog? Chi compenserà questa perdita di patrimonio arboreo, che attualmente assorbe 3 tonnellate di particolato all’anno e 1,4 tonnellate di No2? Non certo uno stadio ristrutturato, non certo i soldi (che notoriamente non producono ossigeno, né assorbono CO2).

Il Comitato “Rigenerazione no speculazione” ha già raccolto 2.525 firme certificate di residenti, studenti e lavoratori bolognesi, e sottolinea che il bosco selvatico è scrigno di biodiversità, indispensabile per riequilibrare la situazione ambientale di una città già molto inquinata. Da Bologna a Tor Bella Monaca, quartiere di Roma: accanto alla casa di un mio amico, dove prima c’erano alberi e verde, ora ci sono megadistributori di carburanti per auto: cemento, consumo di suolo, CO2, isola di calore, inquinamento acustico per i compressori del metano e gpl.

A Sissa Trecasali, nella Bassa parmense, sono stati cancellati dal cemento 74 ettari di suolo fertile, per far posto alla Ti-Bre, primo lotto dell’autostrada che dovrebbe collegare l’A15 all’A22, tra Parma e Rolo-Reggiolo. A Vercelli, nel corso del 2017 sono stati trasformati 44 ettari, per realizzate il polo Amazon.

Esempi su esempi, in un’Italia sempre più fondata sul cemento, sulle auto e sull’asfalto. L’Ispra lancia (come ogni anno) l’allarme: nonostante la crisi economica, sono sempre di più le nuove infrastrutture e i cantieri aperti, che invadono anche aree protette e a pericolosità idrogeologica. Nel 2017 le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 54 chilometri quadrati di territorio, circa 15 ettari al giorno o 2 metri quadrati al secondo. Almeno 55 Comuni superano ormai il 55% della superficie consumata, e sono per lo più nel napoletano, nel milanese, in Brianza o in provincia di Caserta.

Una perdita enorme: più cementifichiamo più aumentiamo il riscaldamento globale, visto che il suolo cementificato non è capace di assorbire CO2, né di regolare il microclima, e rendiamo anche le nostre città sempre meno resilienti ai cambiamenti climatici con conseguenti allagamenti, isole di calore, frane… È urgente, quindi, approvare in via definitiva il disegno di legge (fermo da due anni in Parlamento), che prevede lo stop totale al consumo del suolo entro il 2050. Inoltre le città dovrebbero adottare sistemi per aumentare la permeabilità delle superficie urbane e mitigare il caldo (Green Infrastructures): spazi verdi, trincee filtranti, stagni e zone umide, canali vegetati, boschi urbani…

Infine, dobbiamo puntare a un “consumo critico” o meglio “non consumo critico” del suolo: ristrutturiamo case e non compriamole ex novo, preferibilmente restiamo in centro o nelle zone ben collegate dai mezzi e dalle piste ciclabili. Le statistiche ci dicono che dal 2015 i residenti in Italia sono in discesa, ma un’“onda grigia” si allarga attraverso l’espansione di aree urbane, spesso a bassa densità.

A meno che non siamo agricoltori, andare a vivere in campagna non ha molto senso: conosco tante persone che prima venivano al lavoro in bici o a piedi, ma da quando hanno costruito la nuova villetta in campagna, ora tutti i giorni vengono al lavoro in auto, intasando di traffico e smog la città. In questa Italia sempre più grigia, ci sono ancora tanti esempi di resilienza e sana testardaggine. A Montefiore di Recanati,un minuscolo borgo marchigiano di qualche centinaio di anime, mio padre ha comprato e abbattuto un ecomostro di cemento di 3 piani, danneggiato dal terremoto, che sorgeva accanto alla sua casa: per realizzare un orto sinergico.

Oltre a esser guardato come un pazzo, (“la gente gli diceva: ma perché non ci costruisci una piscina? Una villa?”), ha anche dovuto pagare un’Iva del 22% sull’abbattimento del palazzo. Perché non ci sono incentivi a chi demolisce senza ricostruire, coltivando, o riportando area verde?

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