“Perché noi che siamo nati in questa terra dobbiamo soffrire così?”. Se lo chiede un giovane uomo palestinese nato e cresciuto nella Striscia di Gaza. Ha perso il padre durante l’operazione militare Piombo Fuso, una delle tante vittime innocenti. Stefano Savona, palermitano ma trapiantato da anni a Parigi, conosce quel territorio quasi come casa sua, e dal 2009, anno in cui realizzò il film documentario Piombo Fuso, ha deciso di fare del suo cinema un testimone “responsabile” di quanto accade in quel segmento di terra perennemente tormentato. In tale contesto è nata La strada dei Samouni, opera selezionata sulla Croisette dalla Quinzaine des Realisateurs.

Prodotta dalla propria PicoFilms con Dugong, Alterego e Rai cinema, il nuovo sforzo di Savona si avvale anche del contributo di Stefano Massi, animatore ben noto nel cine-panorama italiano per le sue suggestive sigle alla Mostra veneziana. Insieme a una equipe di animatori magnifici, Massi ha realizzato le animazioni del film atte a ricreare l’inferno di accadimenti di cui l’allargata famiglia Samouni è stata vittima. Già, perchè solo i sopravvissuti di quel massacro indicibile sono gli occhi e le orecchie testimoni degli eventi, e solo grazie a loro, all’ascolto che Savona ha prestato loro “rimanendo” nelle loro case, era possibile dar conto delle nefandezze di operazioni militari disumane e disumanizzanti.

Proprio come nel capolavoro del collega cambogiano Rithy Pahn, L’image manquante (L’immagine mancante), il cineasta palermitano si è servito del talento di Massi per “riempire” quei vuoti. Il punto di vista è misto ma parte essenzialmente da quello di una bimba, Amal, che ha per anni vissuto con una pallottola in testa (ora estratta) ed è nel suo modo fanciullesco che realtà documentaria e “realtà animata” si mescolano e completano. Per Stefano Savona, infatti, documentarista di integrità cristallina e già archeologo ed antropologo, il cinema ha un ruolo preciso e ha anche fare con l’assunto che non esiste futuro senza memoria: “Il cinema deve opporsi all’inevitabilità della morte, e noi cineasti abbiamo la responsabilità di non essere complici del feticismo che la morte stessa contribuisce a formare”.

In altre parole Savona si riferisce alla materia, alle rovine che di per sé “non sono cinegeniche me sono essenziali alla ricostruzione di tante cose. Pensavo agli architetti di Hitler che s’imponevano di fare edifici che fossero belli anche in forma di materie”. A Simone Massi il collega palermitano ha chiesto di “essere fedele a se stesso, lui che è un cantore della resistenza e del mondo agreste. Ho chiesto di continuare a mettere in scena la propria memoria mentre io gli fornivo dei frammenti precostruiti: ogni fotogramma è un pezzo di memoria che si ricostruisce”. Il film è indubbiamente prodigioso: alla parte documentaria di Savona, sensibile meta-testimone, Massi ha inserito ricostruzioni addirittura dei cecchini israeliani che colpivano nottetempo le case dei civili di Gaza con obiettivi a infrarossi. Ecco dunque delle ombre bianco cangianti fuggire chine e intimorite da una casa all’altra, mentre il pubblico già conosce il loro destino.

Fuori dai denti, Savona sa perfettamente che una buona parte di responsabilità dello stato di precarietà esistenziale in cui versano gli abitanti della Striscia è anche a carico della divisione interna in partiti. “Nel momento in cui dall’esterno si fa tabula rasa di una comunità, su quel vuoto ognuno  proietta le sue differenti ideologie, una coincidenza di interessi che spesso si rivela mortale per chi vuole solo il diritto alla propria identità”.

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