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La libreria al-Kitab, sulla avenue Bourguiba, è una delle migliori di Tunisi. E per noi stranieri, ha un intero scaffale su Islam e democrazia. Ma i libri più richiesti, tra i lettori di qui, sono quelli dello scaffale accanto: i libri sui suicidi.

La Tunisia è il paese in cui tutto è iniziato. Il paese in cui il 17 dicembre 2010 Mohamed Bouazizi, 26 anni, si è cosparso di benzina e ucciso dopo la confisca del carretto di frutta e verdura con cui tirava a campare, orfano di padre, e primo di cinque fratelli. Lavorava da quando aveva 10 anni. Il suo suicidio ha travolto il presidente Ben Ali, e poi l’intero mondo arabo: e oggi a Sidi Bouzid, la sua città, la strada principale ha il suo nome. Ma è l’unica differenza. Negli ultimi cinque anni, a Sidi Bouzid la disoccupazione è raddoppiata, dal 14 al 28 per cento – e le cifre vere, come sempre, sono ancora più alte: perché qui con uno stipendio, spesso, non si vive. Le cifre vere sono quelle dei ragazzi che vedi su un tetto, all’improvviso, su un cornicione, su un traliccio dell’elettricità: vogliono suicidarsi, suicidarsi come Mohamed Bouazizi, perché tanto, come ribattono a chi, di sotto, tenta di fermarli, “tanto siamo già morti”.

Pensiamo ai suicidi, e pensiamo subito ai jihadisti. Agli attentati. E invece nel mondo arabo, oggi, i suicidi sono questi.

Pensiamo che ci sia odio, qui. E invece c’è soprattutto disperazione.

“In Tunisia la parola d’ordine, ora, è unità nazionale”, mi dice Sami Ben Gharbia, uno dei fondatori di Nawaat, il blog collettivo, a lungo illegale, che è stato una delle fucine della rivoluzione. “Ma in fondo, è solo un modo sofisticato per dire che la priorità è la stabilità, invece che il cambiamento”. Il governo di coalizione tra laici e islamisti, infatti, questo governo per cui la Tunisia è indicata come un modello per tutto il mondo musulmano, se ha evitato al paese di finire come l’Egitto, o peggio, come la Siria, come lo Yemen, ha anche frenato le riforme. Impaludate in uno stato di transizione infinito. Perché il problema, qui, non sono le risorse. Dal 2011, la Tunisia ha ricevuto 7 miliardi di dollari di aiuti internazionali, e il Fondo Monetario ha adesso concesso un ulteriore prestito di 2,8 miliardi. Il problema è la corruzione. Gli amici e parenti di Ben Ali controllavano il 25 percento dell’economia: e il loro dominio sostanzialmente non è stato toccato. Anzi. A settembre è stata infine approvata una contestata amnistia per i colpevoli di corruzione. Ed è per questo che in realtà, le manifestazioni qui non si sono mai interrotte. Quelle di questi giorni, non a caso, non sono iniziate il 14 gennaio, l’anniversario della caduta di Ben Ali, ma il 3 gennaio, l’anniversario della prima vera rivolta, i moti del pane del 1984. Il movimento si chiama: Fesh Nestannew?, Che aspettiamo?, e lo slogan è: Via la legge di bilancio.

Riecheggia quello del 2011: Via il regime. Ma l’obiettivo, adesso, sono le privatizzazioni e i tagli ai sussidi, l’aumento delle tasse e il blocco delle assunzioni pubbliche. Ed è per questo che secondo molti attivisti, non si avrà nessuna nuova rivoluzione. “Non è solo la maggiore esperienza, e quindi la maggiore consapevolezza delle difficoltà, e dei rischi”, dice Sami Ben Gharbia. “E’ che è molto più semplice abbattere un vecchio regime che costruire un governo diverso”.

Parole prudenti. Che suonano sagge. Ma anche vuote, fuori da Tunisi. O anche solo a Ettadhamen, che in realtà, è a venti minuti di tram dal centro, ma è un po’ come Molenbeek, a Bruxelles: è già un altro mondo. Un mondo di case basse, in cemento: e nient’altro. Ha 200mila abitanti, e due strade scalcinate che si incrociano in perpendicolare, con vecchie officine, friggitorie. Negozi di lavatrici, frullatori usati. Mobili in fòrmica. Il logo più di lusso, qui, è quello del Carrefour. Nel tentativo di placare le proteste di questi giorni, il presidente Essebsi, che ha 92 anni in un paese in cui il 40 percento della popolazione è sotto i 24, è venuto a inaugurare un centro per i giovani. E per Ettadhamen, è stata la prima visita di sempre di un alto rappresentante dello stato. Un ragazzo mi osserva scrivere. “Guarda che Ettadhamen mica è così”, mi dice. “Hanno risistemato tutto una settimana fa, montato un po’ di luci. Tolto la spazzatura. E aperto questo centro con tre sedie e quattro libri. Ma i libri non si mangiano”, dice. “E qui abbiamo fame”.

Da Ettadhamen, persino la Siria ti sembra un’opportunità.

Perché una volta, si partiva per Lampedusa. Si partiva da Zarzis, a sud, vicino Djerba. Il punto più vicino. Lungo il mare, a Zarzis, sulla sabbia, cammini, e ancora trovi scarpe. Scarpe, e relitti di barca. Ma oggi anche l’Italia è in crisi, e al più, ti offre un lavoro nei campi di pomodoro. O nello spaccio. E quindi 27mila tunisini, in questi anni, hanno scelto una destinazione molto diversa: le varie jihad del mondo. Circa 6mila si sono effettivamente arruolati, e 900 sono tornati. O più esattamente: 900 sono in carcere. Molti altri sono semplicemente sgattaiolati indietro. In periferie così. In cui pochi metri più avanti, intanto, una troupe di al-Jazeera filma dei ragazzi che fumano hashish. “Perché se fossi del tutto sveglio”, dice uno, dritto nella telecamera, “ti appiccheresti il fuoco. A te, e a tutti quelli intorno a te”.

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