Ad osservare l’italo-psicodramma che si sta consumando ormai da 48 ore sulla questione Ema sembra siano impazziti tutti. Sarà il climate change, l’ansia per un’estate senza calcio o le elezioni alle porte ma tra ironia del web per il marketing sovietico della candidata Milano e le accuse di brogli agli olandesi più che un ufficio di 1000 dipendenti per il quartiere Zuid pare che Amsterdam abbia vinto a tavolino l’Europa League.

In un certo senso lo spirito è quello ma il chiasso in bit ha distolto lo sguardo dalla vera natura di quella sfida, certamente campale ma non per le ragioni che abbiamo letto o scritto in giro.

Cominciamo dicendo che non è Milano ma l’Europa ad aver perso la sfida per la riassegnazione dell’agenzia per i medicinali: a molti sarà sfuggito ma l’Ema va ricollocata perché l’Ue sta perdendo uno dei pilastri strategici ed economici del Continente. Gli inglesi non piacciono più a nessuno, sono un fardello per l’Unione ma il 31 marzo 2019 quando il Regno Unito – e il loro contributo, il quinto più importante – mancheranno al bilancio comunitario forse rivedremo lo spirito agonistico che ha circondato l’assegnazione della nuova sede della potente agenzia europea.

Nessuno chiedeva la fascia nera al braccio ma l’euforia da trattative al mercato delle vacche, noi europei, potevamo risparmiarla: la posta in gioco, nel passaggio più delicato e incerto nella storia dell’Unione è ben più alta di un’agenzia e di 1000 posti di lavoro. Se il Regno Unito è stato a lungo il simbolo della disunione europea, lo squallido bazar messo in piedi dalle diplomazie ha mostrato la fragilità dell’euro “team building” macroniano degli ultimi mesi. A sorrisi e dichiarazioni, insomma, sono tutti capaci a definirsi europei ma quando si tratta di prendere, ognuno lo fa in ordine sparso.

C’è poi l’incognita Olanda, ossia il battitore libero d’Europa: i Paesi Bassi, per cultura e tradizione, giocano su più tavoli e sono, allo stesso tempo, i più europeisti e i più antieuropeisti del continente. Per l’ex vicesindaco al comune di Amsterdam, Kajsa Ollongren oggi ministro dell’Interno e per il premier Mark Rutte è un trionfo personale: ai tempi della candidatura della capitale l’avevano detto senza giri di parole: l’Ema verrà ad Amsterdam, costi quel che costi. Avevano coinvolto come negoziatore Wouter Bos, ex leader laburista, ministro e volto ben noto a Bruxelles. Sarebbe stato lui il deus ex machina “dell’acquisizione” Ema, un’operazione trasversale destra-sinistra condotta approfittando dell’assetto da multinazionale del paese dei tulipani. Ma Amsterdam ha o no i requisiti? In realtà non ha neanche la sede per l’agenzia che verrà. Inoltre, la città, una tra le più densamente popolate al mondo, è soffocata da una carenza di alloggi che ne sta compromettendo lo sviluppo.

I residenti sono costretti ad andare via, chi resta si adatta a condizioni costose, quando ha la fortuna di trovarne, oppure si rivolge al mercato senza regole dei subaffitti. Ma tutto questo non importa: l’ufficio marketing della capitale è una fabbrica dei sogni e riuscirà a convincere i residenti strozzati dalla crisi abitativa che trovare casa in fretta ai dipendenti Ema è giusto e ragionevole.

Stando ad un’indagine condotta da Reuters ad ottobre i famosi 1000 dell’agenzia avevano minacciato di mandare in malora le attività istituzionali se la scelta della sede post-Brexit non li avesse soddisfatti. E questa scelta metteva Amsterdam in testa.

Ciò che ha perso l’Italia in questa vicenda ben poco edificante è nulla rispetto a ciò che potremmo perdere tutti se il progetto europeo arrivasse al capolinea. La ricollocazione dell’Ema (e dell’Abe, l’Autorità bancaria europea) poteva essere un momento per riflettere su come far ripartire l’Ue e invece si è ridotto ad uno squallido mercato di potere influenzato dai capricci di meno di un migliaio di dipendenti pubblici.

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Ema, al dossier di Milano è mancato il cuore

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