Meglio sgomberare il campo da ogni dubbio: Suburra, la prima serie italiana di Netflix, non è Gomorra. Non doveva esserlo, forse non voleva esserlo, ma sicuramente rischiava di esserlo. E visto che Gomorra è la cosa migliore che la serialità televisiva italiana sia riuscita a produrre forse nella storia, è bene sgomberare il campo da ogni dubbio anche su questo: Suburra è inferiore a Gomorra per scrittura, narrazione, psicologia dei personaggi.
Detto questo, però, è giusto riconoscere a Suburra, a Netflix e Cattleya (che non a caso produce anche la saga dei Savastano in onda su Sky), di aver saputo continuare, con una soddisfacente dose di efficacia, il filone dei crime thriller all’italiana che proprio con Romanzo Criminale e Gomorra ha ritrovato insperato vigore.
In Suburra funzionano (e tanto) soprattutto le vicende dei tre giovani protagonisti: Aureliano, Spadino e Lele. Tre ragazzi diversi tra loro, con ambizioni simili ma indoli distanti. La ricerca del denaro e del potere è il fil rouge che accomuna tutti, e tutti sono pronti a tutto pur di ottenerli. “No matter what”, dicono gli americani. Alessandro Borghi (Aureliano) ha dimostrato ancora una volta di essere la punta di diamante di una nuova e vigorosa generazione di attori, con una prova convincente fatta di mille sfumature psicologiche, di tic, gesti, sguardi. È lui il protagonista assoluto di Suburra, e su questo non può esserci dubbio.
La sorpresa, invece, è Giacomo Ferrara, che già nel film diretto da Sollima aveva interpretato Spadino e anche stavolta si dimostra intenso, spigoloso, regalando allo spettatore un personaggio che ribolle di rabbia, di istinti repressi, di ruoli imposti, ma anche di vitalità, voglia di prendere la vita a mozzichi e di liberarsi dal giogo di chi lo vorrebbe come non è e non potrà mai essere.
Molto più debole, invece, la parte della serie dedicata agli orrori della politica romana e ai rapporti pericolosissimi con criminalità e Vaticano. È tutto solo abbozzato, detto e non detto, fatto intendere, lasciato lì, quasi per mancanza di coraggio. E pensare che di cose da dire, anche traendo spunto dall’attualità degli ultimi anni, ce ne sarebbero state eccome. Il punto debole del progetto è proprio lì, nelle vicende del consigliere comunale Cinaglia, del sindaco dimissionario, dei misteri dei palazzi vaticani, con il povero monsignor Teodosiu costretto a reggere sulle sue spalle da peccatore incorreggibile tutto il peso di un marciume diffuso e purtroppo documentato nel corso dei decenni.
Raccontare gli intestini di Roma richiede maggiore capacità di osare Suburra si ferma troppo presto, si arrende, molla la presa e preferisce concentrarsi su tre ragazzi, invece di infilare la mano nella cloaca vera, nella latrina capitolina fatta di poteri forti sul serio e di incroci pericolosi e di confini labili tra Stato e mafie, preti, puttane, contesse, faccendieri e delinquenti. Per fortuna, però, ci rimane il racconto crudo di tre gioventù bruciate ma viscerali, genuine nella loro ferocia, fatte di disagio generazionale e di una sorta di donchisciottesca convinzione di poter andare (magari vincendo) contro poteri che dominano Roma da migliaia di anni, non da ieri, e chissà ancora per quanto tempo la domineranno ancora.
Suburra non è Gomorra, dunque, ma nemmeno una qualsiasi fiction prodotta e trasmessa da canali generalisti. È un tentativo riuscito a metà, ma comunque positivo e da non archiviare con frettolosa superficialità. Il filone aurifero è quello giusto, bisogna solo scavare più a fondo. Di certo, per il momento, c’è che la serialità italiana è pronta a competere a livello globale. E non è poco.