12 Giugno 2016. Un uomo spara sui frequentatori del Pulse, un locale gay di Orlando. I morti sono 49, nella strage più sanguinosa della storia Usa. 1 ottobre 2017, un uomo spara sulla folla di un concerto a Las Vegas. I morti sono almeno 59, in quella che è ora la strage più sanguinosa della storia Usa. Tra la sera del giugno 2016 e l’ottobre 2017 sono trascorsi 477 giorni e sono passati sopratutto 521 mass shootings, le stragi di massa, quelle in cui l’assalitore spara in modo indiscriminato e le vittime sono più di quattro. Tra il giugno 2016 e l’ottobre 2017, tra Orlando e Las Vegas, nulla è intanto cambiato, sulle armi, a livello politico e legislativo.

Il giorno dopo il massacro di Las Vegas tornano le inevitabili polemiche, il dibattito, la frattura tra chi vuole una serie di norme che regolino vendita e uso delle armi, e chi invece pensa che le stragi siano opera di psicopatici e che a poco o nulla valgano norme e limitazioni. Bill O’Reilly, l’ex anchorman di Fox News, oggi spiega che ogni americano ha diritto alle proprie pistole e che episodi come quello di Las Vegas sono “il prezzo della libertà”. Altri farebbero volentieri a meno di pagare questo prezzo, ma si scontrano con una realtà politica, economica e culturale che pare sempre meno riformabile e in cui ogni tentativo di mettere in discussione il “diritto di portare un’arma” fallisce miseramente. Per dirne una: ai Centers for Disease Control and Prevention, un’agenzia del governo federale, è vietato condurre qualsivoglia tipo di indagine sul legame tra armi e salute pubblica. Come ha detto l’ex deputato democratico Steve Israel, “il governo non può studiare la violenza per armi da fuoco ma può spendere 400mila dollari sugli effetti del massaggio svedese sui conigli”.

Barack Obama ha cercato, durante la sua presidenza, di fare qualcosa, senza successo. Veniva, politicamente, da una città segnata da un alto grado di violenza, Chicago, e il problema di vendita e uso delle armi da fuoco lo conosceva. A parte un ordine esecutivo, Obama non è riuscito a fare molto. La legge preparata dalla democratica Dianne Feinstein e sponsorizzata da Obama, che bandiva le armi d’assalto, non è mai riuscita a passare lo scoglio del Congresso. E negli ultimi giorni della sua presidenza, proprio Obama ricordava che il suo “più grande rimpianto” era quello di non essere riuscito a far passare una norma sul gun control. Le lacrime del vecchio presidente, dopo il massacro di 20 bambini alla Sandy Hook Elementary School, raccontano molto del senso di impotenza di fronte alle tragedie ricorrenti.

Con Donald Trump le cose sono ancora cambiate: in meglio, per la lobby delle armi. Durante tutta la scorsa campagna elettorale, il candidato repubblicano si è presentato come uno strenuo difensore del Secondo Emendamento – e, lui stesso, possessore orgoglioso di armi da fuoco. Una delle prime azioni di Trump, diventato presidente, è stata quella di cancellare l’ordine esecutivo di Obama, che di fatto proibiva alle persone con problemi di salute mentale (e che percepiscono per questo un assegno dal Social Security) di comprare un’arma. Per festeggiare i primi cento giorni della sua presidenza, Trump è andato ad Atlanta dalla National Rifle Association e ha proclamato che “gli otto anni di assalto al diritto di portare un’arma” sono finiti. “Con me, avete un vero amico e un campione dei vostri interessi alla Casa Bianca”, ha spiegato.

Al Congresso, in questo momento, sono intanto in dirittura d’arrivo nuove misure che confermano i proclami di Trump. Le esportazioni di armi saranno messe nelle mani del Dipartimento al Commercio, e non più del Dipartimento di Stato, che tratta la questione come materia di sicurezza nazionale e che è quindi più attento ai Paesi dove le armi USA vengono dirette. Ma i repubblicani sono anche impegnati a far passare una legge per la liberalizzazione dei gun silencers, i silenziatori per armi (legge la cui approvazione è stata rimandata dopo il tentato omicidio da parte di un pazzo del deputato repubblicano Steve Scalise). I repubblicani dicono che la misura, non a caso definita “Hearing Protection Act”, serve a proteggere l’udito dei cacciatori. Gli oppositori spiegano che renderà più difficile per la polizia identificare un assalitore (come è avvenuto nel caso di Las Vegas, con Stephen Paddock asserragliato al 32esimo piano del Mandalay Bay Hotel).

In questa situazione è quindi più che naturale che Trump abbia offerto le sue condoglianze per le vittime di Las Vegas senza mai pronunciare la parola “gun” e parlando piuttosto di “un atto di pura malvagità”. Il presidente non ha nessuna intenzione di spingere per far passare una legge che limiti il diritto di portare un’arma. Lui e i repubblicani sono anzi impegnati nella direzione opposta e l’episodio di Las Vegas, è convinzione generale, diventerà presto un altro luogo e un’altra strage nella massa dei luoghi e delle stragi che non hanno cambiato nulla: Columbine, Herkimer, Tucson, Santa Monica, Marysville, Chapel Hill, Tyrone, Waco, Charleston, Chattanooga, Lafayette, Roanoke, Roseburg, Colorado Springs, San Bernardino, Birmingham, Fort Hood, Aurora, Virginia Tech, Orlando.

Sul perché poi morti e stragi non cambino molto ci sono diverse interpretazioni. C’è sicuramente un dato politico-finanziario. La NRA è un donatore importante in campagna elettorale. Non tanto generoso come di solito si crede. Dal 2002 al 2016 la più potente lobby delle armi ha donato solo quattro milioni ai membri del Congresso (quando una sfida politica particolarmente feroce può arrivare a costare sino a cento milioni di dollari). Ma la NRA dona anche ai partiti nazionali e ai gruppi statali e locali. I suoi cinque milioni di membri, le loro famiglie e le reti di persone in relazione possono offrire finanziamenti elettorali a pioggia e senza alcun limite (e ovviamente possono offire il loro voto). La NRA ha poi un proprio Super PAC e un’organizzazione 501c4 (no profit e volta a scopi sociali), che conducono battaglie politiche e pompano altri dollari nelle campagne elettorali (27 milioni nelle elezioni di midterm 2014).

Ci sono poi altri elementi, più generali, a spiegare la fortuna delle armi negli Stati Uniti. La National Rifle Association non è l’unico gruppo del settore. L’emergere di altre organizzazioni, ben più radicali, ha costretto la NRA a difendere la sua egemonia e l’ha spinta a chiudersi e negare qualsiasi possibilità di riforma. Il ridisegno dei distretti elettorali ha ulteriormente polarizzato la politica e l’elettorato; deputati e senatori repubblicani si trovano a competere in collegi marcatamente conservatori, in cui qualsiasi proposta di gun control viene vista come un attacco alle libertà fondamentali. C’è infine un dato di più lungo periodo. La “rivoluzione conservatrice” che ha segnato l’America negli ultimi quarant’anni ha toccato anche la questione delle armi. Il Secondo Emendamento, che un tempo veniva considerato, anche dai tribunali, come uno strumento che protegge il diritto alle armi “di una milizia ben regolamentata”, è diventato ora lo strumento per proteggere il diritto incondizionato, di tutti, di procurarsi una pistola o un fucile.

C’è quindi tutto questo a fare da sfondo ai 59 morti di Las Vegas. Poco, forse nulla, è possibile fare sul breve periodo per riformare la situazione. Lo ha confermato in queste ore proprio Steve Israel, il deputato dello Stato di New York che ha passato sedici anni della sua vita nelle aule del Congresso cercando di far passare una legge sensata sul possesso di armi: “Non cambierà niente – ha detto Israel – dopo il massacro di Las Vegas”.

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