Il processo di primo grado per Mafia Capitale termina con una sentenza a sorpresa: per la X sezione del Tribunale di Roma non c’è stata mafia a Roma. E’ necessario attendere le motivazioni per capire quale sia stato il percorso logico adottato dalla corte capitolina ma già dalla lettura del dispositivo in udienza sono apparse chiare le linee sulle quali si è mosso il tribunale.

Va detto che la Corte ha confermato l’esistenza di due associazioni a delinquere e che le pene generali irrogate a tutti gli imputati sono estremamente severe rispetto al tipo di reato risultante dal processo e dalle esclusioni delle aggravanti (per esempio nessuno degli imputati sembra aver usufruito delle attenuanti generiche pur avendo in massima parte la Corte rigettato la presenza di aggravanti) considerato anche che il sodalizio non sembra aver compiuto fatti di sangue.

La lettura in udienza della sentenza da parte della X sezione del Tribunale di Roma ha evidenziato tre punti dai quali sembra emergere con assoluta certezza la convinzione da parte della Corte che non vi sia stata a Roma, nel contesto dei fatti da cui è scaturita Mafia Capitale, attività mafiosa.

Il primo elemento di convinzione deriva dalla circostanza che la Corte ha ritenuto di riqualificare il fatto, declassandolo da condotta mafiosa a condotta semplice attraverso l’applicazione di un diverso articolo del codice penale, il 416 e non il 416 bis, che prevede l’associazione a delinquere cosiddetta semplice, rispetto a quella mafiosa. Quella, per fare un esempio generale, che può essere diretta a turbare appalti, a realizzare attività corruttive, ma non a realizzare un programma criminoso mafioso.

Un reato diverso quindi da quello contestato, e non, come invece si è letto da qualche parte, una semplice aggravante “mafiosa” che non è stata riconosciuta o che sarebbe “caduta”.

L’aggravante del metodo mafioso (che è diversa dal reato di associazione mafiosa) era stata contestata nel processo in aggiunta all’associazione a delinquere di stampo mafioso, in quanto si era ritenuto che al di là del reato associativo mafioso, i diversi protagonisti avessero agito anche con l’aggravante prevista dall’art. 7 D.L. 152/1991 conv. con L. 203/1991.

Questa aggravante si applica quando, al di là dell’esistenza del vincolo mafioso, uno o più soggetti adottino modalità tipiche dell’agire “mafioso”, prima fra tutte l’intimidazione basata sulla violenza oppure, in caso di attività economiche, l’aver agito per favorire il clan. Nel processo di Mafia Capitale sono state escluse per tutti gli imputati sia il metodo che l’esistenza di un vincolo formale di appartenenza al sodalizio mafioso; questo è il secondo elemento che conferma la chiara convinzione del tribunale di non trovarsi di fronte ad un’associazione mafiosa.

Ultimo elemento fattuale che induce a ritenere che per il Tribunale di Roma non c’era sodalizio mafioso è l’assoluzione di due imputati ritenuti il collegamento tra un clan di ‘ndrangheta egemone nel Vibonese e alcune cooperative riconducibili a Salvatore Buzzi, braccio finanziario dell’organizzazione capeggiata da Carminati.

È facile presumere che la procura di Roma ricorrerà in appello e che le difese degli imputati attualmente ristretti in regime di 41bis chiederanno sin da subito la fine del regime carcerario duro. L’inesistenza del vincolo mafioso avrà effetti anche, grazie alla legislazione premiale, sul tipo di pena che i condannati potranno scontare e nel luogo in cui la potranno espiare.

La battaglia su Mafia Capitale si aggiorna dunque al prevedibile appello.

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