“Avvocato, la prego. Mi aiuti, mi stanno ammazzando. Faccia denuncia e chiami in clinica. Non voglio morire… faccia sigillare la clinica”. Inizia così una delle tante mail che una paziente, malata di Sla e ricoverata presso della clinica San Vitaliano di Catanzaro, ha spedito al suo avvocato. Giovanna, questo il nome della donna, è impossibilitata a muoversi a causa del progredire della malattia, ma ragiona perfettamente.

Due lauree, una in giurisprudenza e l’altra in scienze politiche, è un soggetto “capace di intendere e di volere, – è scritto in una perizia – intellettivamente attivo, con la possibilità di comunicare con il mondo esterno solo ed esclusivamente attraverso l’uso di un computer in grado di registrare i movimenti delle pupille”. “Io sono tetraplegica – sono le parole di Giovanna al suo legale- ma conservo grazie a Dio alcuni movimenti direzionali e mi esprimo con l’ausilio di un puntatore ottico. Vivo nella paura, sono psicologicamente scioccata: non vogliono dimettermi, intanto mi fanno mancare assistenza. Io sono stufa. Voglio andarmene da quest’inferno: mi aiuti. Voglio solo vivere: non c’è giustizia avvocato. Ho paura”.

Numerose denunce inviate via mail e poi ribadite di persona al pm Stefania Paparazzo che, dopo averla interrogata, ha chiesto e ottenuto dal gip gli arresti domiciliari per un medico e altre 8 persone tra infermieri e assistenti sanitari della casa di cura del gruppo Citrigno. Sposando l’impianto accusatorio della Procura, il giudice per le indagini preliminari parla di “maltrattamenti reiterati e sistematici del personale medico e paramedico che l’ha avuta in cura”.

Il racconto-denuncia di Giovanna, infatti, è confermato dalle intercettazioni ambientali registrate dalla polizia e inserite nell’ordinanza di custodia cautelare. Una prova che consente ai pm di fare luce su quella che, almeno per Giovanna, era diventata la clinica degli orrori. Il quadro che emerge, infatti, è agghiacciante soprattutto se si tiene in considerazione le cure e le attenzioni che dovrebbe ricevere un malato di Sla. Giovanna, invece, veniva percepita quasi con fastidio da parte dei sanitari che costantemente la minacciavano di privarla del computer, l’unico strumento che le consentiva di comunicare e quindi di chiedere aiuto in caso di bisogno. “Se tu usi il monitor e continui a chiamare, io te lo tolgo sino a stasera” è una delle frasi pronunciate da una delle assistenti arrestate. E ancora: “Il monitor lo vuoi e io te lo metto, ma se rompi te lo tolgo: sappilo usare”.

Alla donna i sanitari della clinica San Vitaliano si rivolgevano come se le cure che dovevano prestarle fossero un favore personale. “Quanto cazzo pisci… ti sei cacata”, dicono gli infermieri in un’occasione.  “Giuvà nun cumincià a sunà, si nu tu spaccu” (Giovanna non cominciare a suonare se no te lo spacco il monitor), “il caffè non te lo prendo perché non ho tempo, punto 2 ti cambio perché il mio collega non ti può trovare pisciata”. Poi la offendono: “Puzzi, ragli comu ‘a cuccia” (trad. Puzzi, ragli come un asino), “Sei grassa quanto na ciuccia (trad. Sei grassa quanto un asino), per me puoi ragliare”.

Ascoltando le intercettazioni, sembra quasi che Giovanna dovesse giustificarsi del suo stato di salute e dell’impossibilità di poter badare a sé stessa: “Nessuno disturba come disturbi tu”, “Mancu u mi fumu na cazza e sigaretta, ti para na cosa normala” (trad. Non mi fai fumare neanche una cazzo di sigaretta, ti pare una cosa normale?), “Ti devo prendere la pala (la paletta per i bisogni fisiologici, ndr), allora minda vaiu alle due e mezzo e cà (trad. “allora me ne vado alle due mezza da qui”)… non si può fare tutto nella vita”. “Tu mangi perché ci siamo noi”.

L’arma di ricatto era sempre il monitor con il puntatore ottico: “Non si può cacciare? A che cazzo serve?”, “Guarda che ti stacco il comunicatore”, “Giovà, vedi che ti caccio il monitor, oggi hai dato abbastanza… e ci aggiustiamo per la seconda volta, la terza ti caccio il monitor così non parli”. Il limite della decenza è già ampiamente superato quando, un giorno, due infermieri si passano le consegne e discutono dell’assistenza da prestare a Giovanna: “Se oggi fa così tra tre secondi io le sposto il monitor”.  Partono le risate e le frasi che trasudano cattiveria: “Speriamo che non la fa più, all’inferno non l’hanno voluta”.

Giovanna non ce la fa più e, con diverse mail, denuncia tutto alla polizia. Le angherie, però, piuttosto che diminuire sono aumentate dopo che, nel reparto, si è saputo che Giovanna aveva presentato un esposto. A proposito, il gip definisce “grave e deplorevole la condotta tenuta dal dottore Giuseppe Rotundo che, fino a quando ha lavorato all’interno del reparto di degenza, pur sapendo che la paziente viveva in una situazione caratterizzata da ingiurie, molestie e soprusi giornalieri non solo non ha fatto nulla per impedirlo, contrariamente a ciò che la legge gli impone di fare, ma beffeggiava la paziente dicendole che le sue denunce non avrebbero avuto corso”. “Gip o gup! – sono le parole del medico finito agli arresti domiciliari – Una cena e spieghiamo come funziona e come va la vita”. Secondo il giudice siamo difronte a un “totale disprezzo della legge, della giustizia e dei suoi operatori”, oltre che ovviamente della paziente Giovanna che nel reparto, tra gli indagati, veniva presa in giro e chiamata “la denunciante” o “miss denuncia”.

“Quando vena, savissi da venire, sapimu chi avimu e rispundere”. (trad. Quando vengono i poliziotti, se dovessero venire, sappiamo come dobbiamo rispondere). Il senso di impunità era sovrano tra gli indagati della casa di cura: “Il reparto lo comandiamo noi”.  “È più facile credere ai sani che ai malati muti”. Fino a ieri questa era la regola che è stata infranta prima dal coraggio di Giovanna e poi dal procuratore Nicola Gratteri e dai pm di Catanzaro. La polizia ha fatto irruzione nella clinica San Vitaliano e ha arrestato medici, infermieri e operatori socio-sanitari.I “sani” non sono stati creduti e sono finiti ai domiciliari con l’accusa di aver maltrattato i “malati muti”.

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