Il numero di giovani che sono partiti per la Siria per combattere nelle milizie del Califfato è vago, ma non ci sbagliamo se diciamo che si contano a diverse migliaia. Provengono dall’Europa, dal mondo arabo e possiamo dire da ogni parte del mondo, giovani tra i 18 anni, alcune volte anche minorenni e ragazzi più grandicelli, sulla trentina, tutti animati dal fuoco sacro della guerra in nome di Allah.

Anche se è difficile fare un ritratto omnicomprensivo delle motivazioni che hanno spinto questi combattenti ad abbracciare il jihad, possiamo riconoscere alcuni elementi ricorrenti che caratterizzano la loro azione. Essi si riconoscono in quanto soldati dello Stato islamico e come tali uccidono perché i musulmani vengono uccisi. Mia moglie, i miei figli sono uccisi dalle bombe dei miscredenti, quindi io uccido tua moglie e tutta la tua famiglia. Voi ci attaccate, noi vi attacchiamo. Volete imporre i vostri modelli di vita depravata e noi attacchiamo la vostra economia, soprattutto il turismo seminando terrore e paura nelle vostre città.

L’Isis non ha atteso di essere ridimensionata territorialmente per mettere in atto questa strategia di terrorismo totale. Già nel 2014, quando l’organizzazione si concentrava nella costruzione di uno Stato islamico, il siriano Abu Muhammad al-Adnani lanciava le sue parole d’ordine perché i soldati di Allah si facessero carico di uccidere con qualsiasi mezzo, una pietra, un coltello, un camion, il resto alla fantasia degli assassini. Poi Adnani, nell’agosto del 2016, viene ucciso, ma le sue invettive rimangono scolpite nella testa di quei giovani che, alla frustrazione che li ha spinti sulla via del terrore, aggiungono l’umiliazione di un ritorno in patria con un sogno, quello del Califfato, infranto.

Non vi sono quindi solo quelli che non sono partiti e che covano il desiderio di vendicarsi, pronti a compiere un atto terroristico isolato come quelli che si sono verificati a Istanbul, dalla bomba esplosa davanti a un commissariato di polizia alla strage di Capodanno; quello in Germania compiuto attraverso un tir scagliatosi contro un mercatino di Natale a Berlino, e ancor prima, il 15 luglio 2016, sempre attraverso un camion lanciato contro la folla sul lungomare di Nizza.

Dobbiamo preoccuparci di quelli che ritornano. Anche se la loro esperienza sul terreno di guerra è stata frustrante, anche se hanno potuto constatare gli orrori commessi dall’Isis, anche se hanno assistito a decapitazioni, lapidazioni, esecuzioni di massa, non hanno, tuttavia, perso la speranza di colmare il vuoto della loro vita con azioni concrete che dimostrino quanto la morte – cercata per la gloria di Allah – sia un lasciapassare per il paradiso. Il loro inserimento iniziale nel tessuto sociale è difficile. A parte l’esperienza traumatica della guerra, hanno alle spalle periodi di prigione, generalmente vissuti in Turchia quando i miliziani imboccano la via del ritorno, e ancora prigione spetta loro quando ritornano nei paesi di origine.

Che fare? A parte gli strumenti repressivi e di controllo messi in atto dalle forze dell’ordine, gli Stati sono appena all’inizio dal prevedere iniziative rivolte alla de-radicalizzazione. In Francia il primo centro in tal senso è stato creato a Beaumont-en-Véron. Ospita una trentina tra ragazzi e ragazze che hanno mostrato una tendenza alla radicalizzazione senza essere mai scesi sul terreno concreto. Seguiranno dei corsi di diversa natura impartiti da specialisti. L’ipotesi con la quale è stato concepito questo centro, mi sembra limitata, come se fosse una riunione di alcolisti anonimi. Bisogna allo stesso tempo capire che la difficoltà della materia rende questo esperimento forse poco adatto allo scopo che si prefigge, ma dobbiamo pur sempre partire e fare tesoro di questa prima esperienza. Vi sono altre iniziative, ad esempio quella che prende le mosse dall’azione di Christianne Boudreau che ha perso, mentre combatteva in Siria, un figlio di 22 anni, Damian. Con l’aiuto del Girds (German institute on radicalization and de-radicalization studies) e del suo direttore Daniel Koehler, hanno creato un network di “mamme per la vita”Mothers for life, il cui scopo è di tenere vivo attraverso internet le ragioni del cuore per dissuadere i giovani nell’imboccare una strada di morte. E ancora per fare un altro esempio, Extreme dialogue  – una realtà finanziata dalla pubblica sicurezza canadese – che trasmette brevi filmati, testimonianze di giovani che hanno rinunciato al terrore.

In Italia il fenomeno è più ridotto che in altri paesi. Il problema della de-radicalizzazione deve però interessarci. Occorre soprattutto mettere in atto una politica intelligente per gli istituti carcerari, luogo particolarmente predisposto per esercitare proselitismo jihadista.

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