I giornalisti del quotidiano Le Monde, che hanno scoperchiato la pentola dello scandalo, si sono imbattuti su un lasciapassare speciale. Era quello mostrato dai camionisti che trasportavano verso le direzioni più svariate il cemento dell’impianto Lafarge, colosso francese del settore: uno stabilimento nel nord-est della Siria, a Jalabiya. Sopra quel pass c’era scritto: “Si pregano i fratelli combattenti di lasciar passare ai checkpoint questo veicolo che traporta il cemento di Lafarge, sulla base di un accordo che abbiamo concluso con quell’impianto”. E sopra il tampone del direttore delle finanze della “wilaya” (regione) di Aleppo, parte integrante dello Stato islamico.

Insomma, Lafarge, che aveva costruito questo cementificio, un tempo uno dei più importanti e moderni di tutto il Medio Oriente, è scesa a patti con Daech per lasciarlo in attività il più possibile a partire dalla primavera 2013, quando l’offensiva dei jihadisti li portò a controllare le principali città intorno e soprattutto le strade che si allungano dalla fabbrica in ogni direzione, fino al settembre 2014, quando Daech riuscì a occuparla direttamente. E allora il gruppo francese decise di abbandonarla e di cessare l’attività. “Scendere a patti” ha voluto dire pagare: sotto forma di tasse, il diritto di passaggio ai checkpoints per i loro camion. O anche sui veicoli utilizzati per portare ogni giorno al cementificio i lavoratori, che vivevano perlopiù a Manbij, città presto occupata dalle truppe dello Stato islamico. Pagare ha significato pure rifornirsi di materie prime, come il carburante e il calcare, all’interno del territorio controllato da Daech, contribuendo indirettamente al suo gettito fiscale. E alla sua prosperità.

In risposta alla vasta e documentata inchiesta di Le Monde, i vertici di Lafarge hanno mostrato una buona dose d’imbarazzo in un comunicato dove si legge che “la nostra priorità assoluta  è sempre stata quella di assicurare la sicurezza del nostro personale”. In parte sarà anche vero: hanno dovuto adattarsi a una situazione difficile, soprattutto quando, dalla primavera 2013, la maggior parte delle strade di accesso al loro cementificio siriano sono cadute sotto il controllo di Daech. Ma perché restare fino a quel momento sul posto? Perché attendere quasi un anno e mezzo, prima dell’arrivo dei guerriglieri integralisti dentro all’impianto, “scendendo a patti” nel frattempo con il nemico? Una delle ragioni è forse la seguente: in una Siria già in preda da due anni della guerra civile e dove tutto mancava, il cementificio Lafarge continuava a macinare utili. La produzione era scesa a 6mila tonnellate di cemento al giorno, rispetto alle 10mila massime, raggiunte dopo che l’impianto era diventato operativo, nel 2010. Ma il sacco da 50 chili costava ormai 550 lire siriane invece delle 250/300 del pre-crisi. E neanche un gigante come Lafarge, che dopo la fusione con lo svizzero Holcim, l’anno scorso, è diventato numero uno del mondo, ha avuto il coraggio di sputarci sopra.

A dimostrare le accuse contenute nell’inchiesta del giornale francese sono una serie di mail scambiate dai dirigenti della filiale siriana di Lafarge con intermediari di dubbia fama che li aiutavano nelle loro relazioni con lo Stato islamico. Molti di questi messaggi sono stati pubblicati da Zaman Al-Wasl, sito siriano vicino all’opposizione. Da queste mail emerge che anche i vertici di Lafarge a Parigi erano a conoscenza di quelle relazioni ambigue e imbarazzanti. Adesso il cementificio non è più in funzione. Ma, da quando il territorio intorno è stato strappato a Daech dai combattenti kurdi siriani dell’Ypg (vicini al Pkk turco), l’impianto è diventato una base logistica per americani, francesi e inglesi, impegnati nelle forze speciali occidentali. Quelle anti-Daech.

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