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William Shakespeare, a 400 anni dalla morte tutti pazzi per Bill: dal cinema a Google (che gli dedica il Doodle)

Un doodle versione monodimensionale, molto sobrio e posato, tinte viola, ocra e azzurro/grigio celebra il grande drammaturgo e poeta. Una quarantina di testi teatrali, oltre 150 sonetti, tragedie e commedie che sono diventate il pane quotidiano di teatranti, letterati e cineasti: l’anelito shakespeariano riecheggia come una sorta di lezione classica, di abc compositivo, di tensione emotiva

di Davide Turrini

Esserci o non esserci è pur sempre questo il problema. Anche William Shakespeare viene immortalato dai Google Doodle.  I 400 anni della sua morte (Stratford-upon-Avon, 23 aprile 1616) vengono celebrati oggi con un doodle versione monodimensionale, molto sobrio e posato, tinte viola, ocra e azzurro/grigio. Al centro del disegno il romantico “Bardo”, che diventò in breve il più grande drammaturgo della letteratura occidentale, e attorno a lui piccoli medaglioni a ricordare le sue più grandi opere.

Una quarantina di testi teatrali, oltre 150 sonetti, tragedie e commedie che sono diventate il pane quotidiano di teatranti, letterati e cineasti. L’anelito shakespeariano riecheggia come una sorta di lezione classica, di abc compositivo, di tensione emotiva, nell’analisi di caratteri e dicotomie basici, quei concetti di bene e male che si scontrano, compenetrano, fondono, e di nuovo riemergono trasfigurati dai racconti di gelosia, amore, odio, debolezza e avidità, pazzia e tragedia.

Se dovessimo anteporre un testo shakesperiano, ma è pura e furiosa soggettività viene in mente il Macbeth. Un soffio malefico di brama di potere che si espande come gas nervino in una piece che ha avuto almeno un paio di realizzatori cinematografiche, vista l’impossibilità di scavare tra le infinite rappresentazioni teatrali, da ricordare: la versione di Roman Polanski (1971) e quella recentissima di Justin Kurzel con Michael Fassbender. Il Macbeth polanskiano è qualcosa di talmente mefitico, un anello di congiunzione, una valvola di trasmissione tra i suoi incubi di Rosemary’s Baby e de L’inquilino del terzo piano che sciocca visivamente e psicologicamente forse neanche quanto Shakespeare stesso avrebbe mai pensato. Identico discorso con la versione Kurzel uscita lo scorso gennaio. Magari con una maggiore attenzione sullo sfondo, sull’atmosfera, sulla ricerca visiva negli esterni o negli ampi spazi interni dei castelli, e una presenza di sangue colante che rafforza il significato primigenio del romanzo più breve del “Bardo”.

Saltellando tra un classicismo piuttosto marmoreo ma pur sempre gradevole delle trasposizioni cinematografiche di Laurence Olivier, al barocco espressionismo di quelle di Orson Welles, si arriva anche ad un signore, uno snaturato british nordirlandese come Kenneth Branagh, che cerca di comporre su Shakespeare una sua personale rivisitazione tradizionalista, mai traditrice dello spirito originale dei testi, ma abbastanza diversificata per rilanciare il mito shakespeariano negli anni novanta: il suo Enrico V (1989) rimane nella storia, come del resto il suo lunghissimo Hamlet (1996) da 240 minuti e il divertissment di Nel bel mezzo di un gelido inverno (1997). Poi ci sono i testi più classici della viltà e della menzogna: il machiavellico protagonista del Riccardo III, di cui va consigliata una versione cinema con Al Pacino (1996) dove la narrazione e la rappresentazione entrano dentro al testo per mostrarcene i fili, le nervature, i gangli vitali; e l’Otello, il paradigma della gelosia ad ogni angolo del globo che vogliamo ricordare con una delle più assurde e bizzarre trasposizioni postmoderne di Tim Blake Nelson, O come Otello (2001) ambientato tra il parquet per il basket e le aule dell’università di Palmetto.

Poi ancora ci sarebbe tutto il filone di Montecchi e Capuleti, il balcone veronese di Giulietta e Romeo dove il pellegrinaggio ha assunto nel tempo una dimensione da Baci Perugina. Qui hanno attinto Franco Zeffirelli (1968), ma anche un ancora sconosciuto Baz Luhrmann (Romeo + Juliet, 1996) con Leonardo DiCaprio e Claire Danes. Re, regine, principi e folletti finiscono poi per comparire anche in quel minuetto gentile di Sogno di una notte di mezza estate che Woody Allen rimescolò in deliziosa commedia – Una commedia sexy in una notte di mezza estate (1982) –, ma anche stralcio, sequenza memorabile di film in cui il testo shakesperiano viene rappresentato all’interno di una eterna tragedia: L’attimo fuggente (1989) di Peter Weir. Puck interpretato sul palco del teatro della scuola da Robert Sean Leonard, la vittima di un sistema patriarcale e sociale oppressivo ed ingiusto, recita gli ultimi versi, congedando il drammaturgo che originò il verbo di tenebre e sogno, divenendo immortale: “Ora vi auguro sogni felici, se sia ben vero che siam amici, e ad un applauso tutti vi esorto, poiché ho promesso, che ad ogni torto a voi usato per insipienza, gentile pubblico, faremo ammenda”.

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