Nella notte tra venerdì 13 e sabato 14 novembre 2015, la Francia ha subito la peggiore aggressione terroristica della sua storia contemporanea: sei o forse sette attacchi portati simultaneamente e tra loro coordinati, a Parigi e a Saint-Denis, da tre gruppi di terroristi, equipaggiati di armi dello stesso tipo e che indossavano tutti giubbotti esplosivi dello stesso genere, composti di Tatp (perossido d’azoto) e d’un dispositivo con le stesse pile e identici pulsanti. Un’ecatombe: centoventinove le vittime e più di trecentocinquanta feriti. Sette i terroristi morti: uno, ucciso dalla polizia, gli altri, dopo aver azionato i giubbotti esplosivi. L’organizzazione dello Stato islamico, sabato, ha rivendicato questa mattanza: “Un attacco di soldati del «califfato» ha preso di mira la capitale dell’abominio e della perversione, quella che porta la bandiera dei «crociati» in Europa”, recita il comunicato jihadista. “Otto fratelli, con cinture esplosive e fucili d’assalto, hanno preso di mira obiettivi scelti minuziosamente nel cuore della capitale francese. Lo Stade de France durante la partita di due partiti crociati, Francia e Germania, alla quale assisteva lo scemo di Francia, François Hollande. Il Bataclan dove erano riuniti centinaia di idolatri in una festa di perversione insieme ad altri obiettivi simultaneamente nel X, XI e XII arrondissment”.

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La macchina repressiva si è immediatamente messa in moto. Al momento, parrebbe credibile la pista che porta in Belgio, la cui procura federale ha annunciato che fra gli attentatori kamikaze vi sarebbero stati due francesi residenti a Bruxelles. Ed è un fatto che l’inchiesta francese si stia orientando definitivamente verso il Belgio: l’attenzione poliziesca si sta concentrando su tre fratelli. Due di essi avrebbero noleggiato la Volkswagen Polo ritrovata di fronte al Bataclan e la Seat Leon scoperta a Montreuil, con tre kalashnikov a bordo. È stato anche identificato uno dei sette terroristi uccisi: Ismaël Omar Mostefaï, ventinovenne di nazionalità francese, nativo di Courcouronnes, nell’Essonne, che aveva vissuto, in quest’ultimo anno, nel quartiere de La Madeleine, a Chartres (Eure-et-Loir); già processato otto volte, senza tuttavia essere mai stato incarcerato; fatto già oggetto di una “fiche S” (schedatura per la Sicurezza dello Stato), nel 2010. Molti i “si dice”: Ismaël Omar Mostefaï avrebbe soggiornato in Siria fra l’autunno del 2013 e la primavera del 2014; al suo ritorno, stabilitosi a Chartres, sarebbe stato controllato dai servizi di sicurezza, che sorvegliavano un piccolo gruppo di salafiti. Sarà compito degli investiganti sciogliere i non pochi nodi e portare alla sbarra i criminali. Nell’attesa, peraltro, non si può fare a meno di constatare la catastrofica débâcle del sistema d’intelligence francese, in particolare, e, più in generale, di quello occidentale, di fronte agli attacchi del 13 novembre 2015.

Dopo gli attentati di Charlie Hebdo e dell’Hyper Cacher, avvenuti a Parigi il 7 e 9 gennaio 2015, il dispositivo antiterrorismo in Francia è stato largamente rimodulato: loi sur le renseignement in giugno; état-major opérationnel de prévention du terrorisme (Emopt) posto alle dirette dipendenze del ministro de l’Intérieur in luglio; entrata in vigore, poco più di un mese fa, delle mesures phares de la loi sur le renseignement, con l’autorizzazione, fra l’altro, di numerose tecniche speciali d’investigazione, quali, ad esempio, le intercettazioni ambientali in luoghi privati e la sorveglianza informatica in tempo reale. Considerate la determinazione dello Stato islamico, che ha rivendicato gli ultimi attentati, e l’imprevedibilità di taluni islamisti radicalizzati, non sarebbe stato realistico credere all’azzeramento del rischio, ma ad una sua riduzione in ambiti tollerabili, quello sì. Per contro, quasi a voler mettere le mani avanti, un’informativa dell’intelligence francese, rivelata da France Info il 26 ottobre 2015, riferì che l’Isis stesse preparando una sorta di strategia “incrociata” per colpire l’Europa, che prevedeva l’utilizzo, ad esempio, di cittadini francesi per attentati in Spagna o in Germania, oppure estremisti tedeschi o spagnoli per colpire in Francia, con l’obiettivo di sfuggire allo screening dell’intelligence e di scongiurare, pertanto, l’identificazione, sul presupposto che i Paesi europei non condividono tutte le informazioni sugli individui sospetti. Secondo quella informativa, questa mancanza di coordinamento sarebbe emersa in maniera clamorosa nel caso dell’azione terroristica del Talys, quando un massacro sul treno Amsterdam-Parigi era stato tentato, il 21 agosto 2015, da Ayoub El Khazzani. Costui, di nazionalità marocchina, aveva vissuto in Spagna, dov’era finito al centro del fuoco dell’attenzione dei servizi segreti per il suo profilo integralista; localizzato in Francia, Germania e Belgio, secondo l’emittente France Info, non si sarebbe mai attivato il corretto flusso d’informazioni tra i servizi di sicurezza.

Troppo comodo attribuire questa dolorosa sconfitta dell’intelligence all’eccesso di democrazia: la sospensione delle garanzie costituzionali, imponendo lo stato d’emergenza, magari ci dimostrerà chi in Francia sia il sovrano, secondo la celebre definizione schmittiana; probabilmente questo farà scuola tra i partners europei; ma certamente non servirà a scongiurare il propagarsi del rischio attentati, almeno finché gli apparati securitari saranno appannaggio di teste deboli, dalle mani inabili, pelose e sudaticce, sempre pronte ad evocare, per giustificare i propri fallimenti, l’imprevedibilità dei “lupi solitari” e l’ineluttabilità del “caso”, il quale, notoriamente, non ha memoria.

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