Che cosa avrei fatto io sapendo che dentro a un ascensore ci sono una madre e un figlio bloccati è quello che mi chiedo mentre in macchina con la troupe torno verso il giornale per scrivere un pezzo che deve andare in onda tassativamente nel telegiornale delle 20.30. Che cosa avrei fatto io, sentendo le urla di una donna che chiede aiuto perché dentro alla cabina c’è un bimbo di quattro anni e un caldo asfissiante è la domanda che chi fa il mio mestiere non dovrebbe avanzare in momenti come questo, dove quel che serve sono distanza, impermeabilità e lucidità. Io invece non posso fare a meno di pormi questa domanda, eppure non mi rispondo. Scrivo e mando in onda un pezzo con il tempo che mi scava addosso interrogativi. E oggi, solo oggi, riavvolgo un nastro lungo ventiquattro ore esatte.

La stazione della metropolitana è a incrocio di vie sull’Appia, consolare su cui s’affacciano palazzi alti e popolosi. Sono da poco passate le 18 e in strada c’è un quartiere intero appoggiato alla balaustra della fermata ad aspettare che una notizia di speranza risalga dal sottosuolo. Sarà un’attesa di ore, vana. E’ lo stesso quartiere che oggi ha riempito di fiori, peluche e preghiere uno spicchio di città che osserverà un giorno di lutto per i funerali del piccolo Marco. La sua vita ferma a quattro anni e una verità sulla sua morte che si sta ricostruendo ora dopo ora e per la quale stati denunciati un tecnico dell’Atac e due guardie giurate (le quali, secondo i primi accertamenti non avrebbero svolto un ruolo tecnico e attivo nella vicenda ma che con molta probabilità stavano tenendo la situazione sotto controllo). Concorso in omicidio colposo, secondo chi indaga. “Una tragica fatalità”, si sono giustificati i tre: “Volevamo solo aiutarli”. Soccorrere una mamma con il figlio rimasti bloccati in un ascensore dentro a una fermata della metropolitana. Quella che è stata attivata risulta però una procedura non convenzionale: andava allertata una squadra di manutenzione di soccorso che – oggi si sa – stava per arrivare.

La domanda mi ritorna addosso, anche oggi che si sa: che cosa avrei fatto io. Che cosa avremmo fatto tutti. Sapendo che dentro a un ascensore, intrappolati e soli, ci sono una mamma con suo figlio di quattro anni. E che forse immobili e impassibili non si può restare. E non solo perché è omissione di soccorso ma perché non sempre si può aspettare che il tempo scorra in nome del rispetto di una procedura se dall’altra parte ci sono vite che aspettano di essere salvate.

Sarà importante adesso conoscere i contenuti delle conversazioni registrate tra la donna e gli addetti: nel fascicolo aperto in procura confluiranno anche questi. Ascoltare le richieste d’aiuto, valutarne il peso. Ripartire da lì, da un bivio della coscienza che permetterà di capire, se si potrà, che ci sono impellenze – e azioni – dettate non dal calcolo logico o dall’osservanza delle regole, ma dall’emotività. Che a volte – forzando situazioni e procedure – può garantire la salvezza, e in altre – come in questo caso – risulta fatale.

Francesca Giudice, la donna di 43 anni che ha visto suo figlio scivolare nel buio davanti ai suoi occhi senza avere il tempo di prendergli la mano per salvarlo, chiedeva aiuto. C’è chi ha pensato di darglielo. Sbagliando a fin di bene.

Che cosa avrei fatto è una domanda che non mi pongo più. Adesso che so che avrei sbagliato anche io.

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