Emergono due storie dal finale opposto dalle carte depositate dai pm Ettore Cardinali e Federico Perrone Capano in vista dell’incidente probatorio che dal 22 maggio inizierà a far luce sul disastro della Norman Atlantic, il traghetto della compagnia Anek Lines andato a fuoco lo scorso 28 dicembre mentre navigava sulla rotta Patrasso-Ancona. Nel racconto di Leonidas, camionista greco che si trovava nel garage negli istanti in cui l’incendio inizia a trasformare la motonave in un inferno, e negli interrogativi di un amico di Hakan Akkaya, chirurgo turco che risulta nell’elenco dei dispersi, è racchiuso il dramma vissuto dai naufraghi e la perpetua attesa di chi oggi, a quattro mesi di distanza, non ha ancora visto tornare a casa parenti e amici.

“Pioveva fuoco e sono scappato”
“Mentre ero sulla zattera con gli altri, abbiamo sentito provenire dall’acqua la voce di una donna che chiedeva in greco ‘aiuto’, poi ha iniziato a parlare in inglese chiedendo ‘aiuto, non voglio morire’. Ci siamo sporti dall’apertura ma non siamo riusciti ad individuarla e dopo un po’ la sua voce è sparita”. Leonidas racconta da un lettino del Policlinico di Bari. Sono passati due giorni dal momento in cui la Norman Atlantic è andata a fuoco. Il suo è un resoconto dettagliato. Sono più o meno le 4.30 quando Leonidas, autista greco diretto in Germania con il suo carico di frutta, è nella zona della reception. Ha voglia di fumare. “Percorrendo una scala interna nella parte posteriore della nave, mi sono recato, da solo, nel garage per prendere il tabacco dal mio camion”, racconta agli inquirenti che prendono nota perché la zona dovrebbe essere inaccessibile durante la navigazione. Mentre entra nella cabina sente un rumore, come se stesse piovendo. “E invece di vedere piovere acqua ho visto cadere pezzi di materiale incandescente, che hanno cominciato a bucare il tetto della cabina del camion”. Prova a fuggire dal lato passeggero “ma mi sono reso conto che non potevo uscire in quanto da quel lato c’era poco spazio dal camion a fianco”. Le fiamme sono già alte e stanno avvolgendo i tir verso la poppa. Si ustiona le mani, l’avambraccio e il viso. Fugge.

“Abbracciati, siamo riusciti a scaldarci”
Nella sua corsa per scappare dall’inferno incontra due afgani, clandestini, che sono saliti a bordo – raccontano nel loro verbale – “nascondendosi sotto un tir”. Si portano a poppa e lì attendono che scatti l’antincendio. “Sono trascorsi circa 10-15 minuti – ricorda Leonidas – ma il sistema non è mai partito”. Dopo circa mezz’ora si calano in acqua grazie un cavo di ormeggio. “Essendo privo di salvagente sono rimasto attaccato nell’attesa che arrivasse qualcuno in mio soccorso”. Fa freddo, le onde sono alte fino a sei metri. Non arriva nessuno, se non una zattera autogonfiabile. Leonidas non riesce ad afferrarla. Poco dopo il mare in tempesta ne avvicina un’altra, riesce ad aggrapparsi e un’onda lo catapulta all’interno. “Pensavo fosse vuota invece c’erano i due afgani e un siriano. Non riuscivo più a muovere gli arti per il freddo e i due afgani, restando abbracciati a me, sono riusciti a riscaldarmi nonostante anche loro fossero bagnati”. Una nave battente bandiera greca prova a recuperare i quattro naufraghi tramite una cima. Si rompe e un’onda capovolge la zattera. In due cadono in acqua, si dimenano e riescono a ritornare a bordo. Dopo una notte di fuoco, fumo e acqua gelida, i quattro vengono recuperati dal mercantile Spirit of Pireus. Da un letto dell’ospedale di Bari, il camionista greco racconterà la sua tragedia.

“Aiutateci”. Poi il silenzio
“Se conoscessimo le risposte a queste domande, avremo la possibilità di capire se egli è ancora vivo o meno”. Il 7 gennaio la Capitaneria riceve una mail che si chiude così. La scrive Cagri Karatas, un avvocato che aveva un parente a bordo. Non ha notizie di Hakan Akkaya, chirurgo turco in viaggio con una comitiva organizzata. “Sappiamo che ha chiamato la guida del suo tour più volte quel giorno fino alle 11”. Il dottor Hakkaya si trovava su una scialuppa di salvataggio, secondo il racconto dell’avvocato. “Ha detto che era con un turco e sei cittadini greci e che stavano navigando attraverso una nebbia spessa e grandi onde, purtroppo senza essere riconosciuti dalle navi che si trovavano nei paraggi. Ha detto che avevano bisogno di aiuto immediato, ma la guida ha perso il contatto subito dopo. Il suo cellulare è irraggiungibile da allora. La sua compagna, Havise Savas, è stata trovata morta, ma non sappiamo se era lei il secondo cittadino turco sulla scialuppa”. Karatas è tormentato: “Ci chiediamo cosa è successo a quella scialuppa. È stata trovata o è ancora dispersa? Può una scialuppa affondare o essere fatta così a pezzi da essere introvabile? I funzionari turchi non ci danno alcuna informazione e abbiamo paura. Il ministero degli Affari esteri non presta attenzione alle operazioni di ricerca, se c’è ancora un’operazione di ricerca. Se conoscessimo la riposta a queste domande, avremmo la possibilità di giudicare se egli sia ancora vivo o meno”.

Il mar Adriatico ha iniziato a restituire alcuni corpi che potrebbero appartenere ai naufraghi dispersi. Sono affiorati nel Salento e a Corfù. Uno indossava un giubbotto di salvataggio identico a quelli in dotazione alla Norman. Accanto a un cadavere spiaggiatosi lungo la costa sud occidentale dell’isola greca sono state ritrovate delle razioni d’acqua d’emergenza Seven Oceans, stessa marca di quella che si trovava sulle scialuppe. Corrisponde anche la data di scadenza.

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