Cinema

Nanni Moretti: “Sono fiero di non aver mai invitato Federico Fellini a vedere un mio film”

Pubblichiamo un estratto della master class del regista romano, coordinata dal critico cinematografico Jean Gili, a Bari per il Bif&st. Era appena stato proiettato “Caro diario”.

di F. Q.

Pubblichiamo un estratto della master class di Nanni Moretti, coordinata dal critico cinematografico Jean Gili, a Bari per il Bif&st. Era appena stato proiettato “Caro diario”. 

“Caro diario è nato per caso, io non mi sono reso conto che stavo per girare il mio nuovo film, me ne andavo in giro con quattro persone di troupe. D’estate a Roma c’era per caso Jennifer Beals, perché il marito Alexandre Rockwell, regista, era andato a mostrare un suo film alla Mostra del Cinema di Venezia. Allora io, che la conoscevo poco, imbarazzatissimo, le chiesi di fare un’apparizione nel mio cortometraggio. Pensavo di girare un filmino di un quarto d’ora, da mostrare solo nel mio cinema. Se non avessi avuto un cinema mio non avrei mai pensato di farlo. Era una cosa così fatta in totale leggerezza, che mi ricordava i tempi del Super8 quando nessuno aspettava l’uscita del film di Moretti, io facevo i filmini con gli amici”.

FEDERICO FELLINI
“Sono sicurissimo che Fellini non ha mai visto un mio film. Non gli interessava assolutamente vedere i film degli altri. Sono fiero di non averlo mai invitato a vedere un mio film. La sua dimensione di spettatore cinematografico non gli interessava, mentre la sua dimensione di lettore di libri era enorme”.

LA SCENEGGIATURA
“Palombella rossa, Caro diario e Aprile, soprattutto gli ultimi due, non hanno avuto una separazione netta tra momento della scrittura, momento della preparazione. Comincia il momento delle riprese. È possibile fare un film così, è eccitante ma è rischioso, è possibile farlo quando hai un rapporto non marziale, non troppo ufficiale, col produttore. Come nel mio caso. Quando hai una tua casa di produzione. Scrivi, giri, poi vai in moviola, poi scrivi e monti”.

LEGGEREZZA
“Leggerezza, irresponsabilità, incoscienza in senso positivo. Un film che uno vede in sala strutturato, montato, poi alle volte alla fine è il frutto di alcune casualità. Devo dire che il fatto di arrivare impreparato alle riprese, non mi è capitato sempre. Ci sono dei film che io assolutamente sentivo di dover girare con una sceneggiatura solida, strutturata, precisa nei dettagli… La messa è finita, La stanza del figlio, Habemus Papam o l’ultimo film che ho fatto. Poi ci sono dei film, e mi sembra siano capitati uno di seguito all’altro, Palombella Rossa, Caro Diario e Aprile, in cui ho cominciato a girare senza una sceneggiatura precisa, per frammenti, sperando poi di colmare i buchi narrativi che c’erano nel racconto, di colmarli durante le riprese. Questo può essere un modo di lavorare più interessante, ma è anche più rischioso”.

LA MALATTIA
“Ho capito che l’avrei voluta raccontare con semplicità e ironia. Mi veniva in mente un mio vecchio allenatore di pallanuoto che diceva ai giocatori che volevano fare delle strane rovesciate, dei tiri impossibili: ‘Nun te ’nventà niente’. È bastato aprire una cartellina in cui avevo tenuto degli appunti dei miei incontri con i medici, le prescrizioni. Ho tagliato dalla parte alta dell’inquadratura il nome del medico, però le grafie e le prescrizioni sono quelle vere. Era importante raccontare quella vicenda senza compiacimento. Senza fare una celebrazione della malattia e della sofferenza, neanche sadismo nei confronti della spettatore perchè quando si racconta una malattia questi sono rischi”.

LA MESSA È FINITA (1985)
“Il finale de La messa è finita sono due cose insieme: sia una sconfitta che una vittoria per il personaggio che io interpreto. Parte per la Terra del fuoco, però non è riuscito nella sua città, nella sua parrocchia, fare tanto per gli altri. È insieme un passo avanti e un passo indietro”.

PALOMBELLA ROSSA (1989)
“Verso la fine degli anni Ottanta c’è stato un ritorno dell’importanza della sceneggiatura. Una voglia di fare i compitini ben fatti. C’era la centralità del racconto ma insieme c’era un ritorno di accademismo. Allora, per reazione, con Palombella Rossa ho voluto raccontare in maniera molto più libera, meno obbediente a regole un po’ vecchiotte. Racconto la crisi di un dirigente del Pci, la crisi esistenziale che va di pari passo a quella politica. Avrei potuto raccontare la crisi familiare che va di pari passo con la crisi politica, girare dei dialoghi come: ‘Cara… stiamo insieme per abitudine’, oppure inquadrare la macchina, un maggiolino Volkswagen, che porta il nostro dirigente fuori Roma verso dei compagni tanto onesti e appassionati ma anche ottusi. Invece ho preso una piscina e una partita di pallanuoto che sembra non finire mai. Ho voluto prendermi la libertà di raccontare lo smarrimento, la confusione, la perdita di memoria della sinistra italiana in maniera non realistica, con la macchina, il maggiolino, la crisi familiare e i dibattiti appassionati ma un po’ noiosi tra militanti… ma ho voluto raccontare tutto durante una partita con un’amnesia. Perché avevo individuato nella perdita di memoria un nodo del nostro paese e della sinistra italiana di quel periodo, fine degli anni Ottanta”.

LA COSA (1989)
“A proposito di semplicità: La Cosa è un film documentario di un’ora sulla fine del Pci. Nel novembre del 1989 ci fu il crollo del muro e dopo un paio di giorni Achille Occhetto propose di cambiare identità e nome al Partito comunista. Una decisione che prese in solitudine. Io iniziai ad andare nelle sezioni, a filmare i dibattiti su chi era d’accordo e chi no. Ho iniziato a girare per curiosità mia personale, dubito un po’ di chi ha già una tesi sul documentario che deve girare. Semplicità… nun te ‘nventà niente. Semplicemente facce di persone che parlavano. La loro paura, il loro sollievo, la loro speranza, il loro panico. Era un’autocoscienza in pubblico. Non erano interessati solo gli iscritti, e nemmeno solo gli elettori che erano tanti, a quel dibattito guardava con rispetto l’intera società italiana”.

SCRIVERE DA SOLO
“È più piacevole non scrivere da solo per me. È il modo in cui penso e vivo i film. Si fa una traversata. Ci sono tanti momenti dispersivi di noia, di chiacchiere che non c’entrano niente con la sceneggiatura e poi si arriva a un’idea e a un momento piacevole. Negli anni forse il momento della scrittura è quello più difficile ma non faticoso. Quello più faticoso è per me sempre quello delle riprese. Arrivo con sollievo al montaggio perché si lavora con una persona sola. Non c’è l’ansia di rispettare il programma e girare quelle scene che devi girare e poi soprattutto lavori con una persona e non hai decine di persone che aspettano che ti venga un’idea quando non ce l’hai. Il periodo della scrittura è diventato più difficile, con gli anni, ma anche più piacevole”.

LE PAUSE
“È un modo di ricaricarmi, penso che per molti registi sia così. Non per tutti. C’è anche chi, per sua fortuna, ha un rapporto più leggero con il proprio lavoro. Per molti è un investimento psicologico, emotivo. Appena si finisce il film si è scarichi. Si deve creare un nuovo sentimento nei confronti del mondo, che poi piano piano diventano appunti, soggetti. E poi vengono fissati in una sceneggiatura. Per alcuni registi è automatico, finito un film se ne fa un altro. Per me e per altri è più complesso”.

IL CAIMANO (2006)
“Il Caimano è tante cose: è la storia di una separazione familiare, di un grande amore per il cinema di un produttore di film di serie B, ed è anche la storia del film che una giovane regista, Jasmine Trinca, vorrebbe fare. Vari temi e vari sentimenti che si intrecciano”

Dal Fatto Quotidiano del 29 marzo 2015

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