A due settimane dalla puntata del programma di Milena Gabanelli sulla moda, il gotha del settore si è riunito a Milano. L’occasione? Un convegno dall’emblematico titolo “Back to Italy” organizzato dalla società di consulenza Pambianco e Deutsche Bank. Tornare a produrre abiti e accessori in Italia. Ridare identità e concretezza al made in Italy. “Si può definire con il termine inglese “reshoring” – ha spiegato Flavio Valeri, Chief Country di Deutsche Bank – che sta ad indicare la decisione delle aziende di riportare nel paese d’origine produzioni che erano state precedentemente delocalizzate, cioè spostate dove produrre è più vantaggioso”. Ma il trend per ora pare più che altro un auspicio, e chi dalla Cina si sposta verso altri paesi lo fa perché, oggi, anche i cinesi cominciano a costare di più. “Bisognerebbe defiscalizzare un po’ chi fa made in italy al 100%”, chiede Diego Della Valle, convinto che gli imprenditori che espatriano lo facciano perché costretti.

Sarebbero circa un centinaio le imprese italiane che hanno già scelto di invertire la rotta. Le ragioni di questo “ritorno in Patria”? Un maggior controllo della filiera, l’esigenza di rispondere ai mercati con flessibilità, costi di logistica e trasporto più bassi, una ricerca di alti standard qualitativi legata alla crescita del mercato del lusso (aumentato del 30% negli ultimi 5 anni, soprattutto grazie all’Asia). “Ma se le aziende stanno pensando di tornare in Italia – spiega David Pambianco, vice presidente di Pambianco strategie d’impresa – è più per “demerito” della Cina, che sta alzando i costi, che per merito della capacità dell’Italia di far rientrare i propri marchi”. “Certe produzioni si stanno spostando nell’Europa del sud e in nord Africa – ha detto Mario Boselli, presidente della Camera nazionale della moda italiana – Il ritorno in Italia, ad oggi, ha ancora numeri molto piccoli ed è ancora marginale: è però la fase iniziale di un trend che può svilupparsi nel tempo”. E chi ormai produce all’estero come la pensa? E’ pronto a tornare? “Non ci penso nemmeno”, risponde sorridendo Sandro Veronesi, patron del gruppo Calzedonia, che si rivolge a un target più ampio e dichiara che il suo prodotto non sarebbe in grado di sostenere il costo del lavoro in Italia. C’è poi la mancanza di tutele sul “made in” (l’articolo 7 del regolamento comunitario, che introduce l’etichettatura d’origine obbligatoria per i prodotti commercializzati nella UE, non è ancora stato approvato). Al convegno organizzato nel palazzo della Borsa milanese, non poteva mancare la polemica scattata dopo la puntata di Report, sulle produzioni estere, in paesi come la Transnistria, dove ancora esistono Soviet e Kgb e dove grandi marchi italiani produrrebbero a bassi costi i loro lussuosi capi d’abbigliamento. “Lei produrrebbe anche solo una suoletta in Transnistria?” “Noi, soprattutto per quel che riguarda Tod’s, abbiamo l’intenzione di fare tutto in Italia”, si smarca Diego della Valle. Poi, ribadiscono tutti, sta al consumatore decidere se comprare o meno, e mister Calzedonia rincara: “Transnistria? Se la gente compra non possiamo impedirle di farlo”

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