Tra il 2008 e il 2013 in Italia si è perso quasi un milione di posti di lavoro. Quale ruolo ha giocato la flessibilità? Un’analisi delle dinamiche che hanno portato al paradosso del lavoro senza lavoratori. Le tutele e l’auspicio di una riforma che non sia figlia dell’emergenza.

di Emiliano Mandrone*, Manuel Marocco** e Debora Radicchia*** (lavoce.info)

Il paradosso

Tra il 2008 e il 2013 il numero di occupati è sceso di 4,2 punti percentuali, corrispondenti a quasi 1 milione di posti di lavoro in meno. L’incidenza del part-time è cresciuta al 18 per cento (+4 per cento) ed è aumentato in particolare quello involontario, salito al 61 per cento (Istat-Ifl, 2014). La cassa integrazione ha contribuito molto alla tenuta dell’occupazione (e alla stabilità sociale), ma la riduzione delle ore lavorate è stata notevole: si è passati dalle 7,7 per mille ore non lavorate sussidiate del 2007, alle 35 per mille del 2013 (Inps).
Se consideriamo la serie storica Istat-Ifl dell’occupazione standard e non standard(contratti a termine e collaboratori), notiamo che la riduzione del fabbisogno di lavoro dell’economia è stata fronteggiata in una prima fase (2007-2009), lasciando a casa i lavoratori non standard (risultato atteso per come è interpretata la flessibilità da noi); poi, a partire dal 2009, il perdurare della crisi ha eroso in profondità l’occupazione, sostituendo posizioni standard con impieghi a termine, a tempo ridotto, a chiamata, economicamente dipendenti, con alte quote di Cig e autonomi che fatturano ma non incassano, arrivando al paradosso del lavoro senza lavoratori.
Il confronto pre e post crisi conferma che al deterioramento dell’economia è corrisposto un analogo peggioramento dell’occupazione, in termini quantitativi e qualitativi. In tutto ciò la flessibilità contrattuale che ruolo ha giocato? È la via maestra verso l’occupazione (ponte) oppure rischia sovente di diventare una palude da cui è difficile dipanarsi (trappola) o, ancora, è solo una episodica apparizione sul mercato, prima di un brusco rientro tra i senza lavoro (rimbalzo)?

Il ruolo della flessibilità

La lettura longitudinale, prodotta dal panel Isfol Plus, mostra gli esiti nel biennio 2005-06 rispetto a quello 2010-11 (figura 1). Si sono scelti questi due periodi perché sono anni nei quali non sono state apportate modifiche alla legislazione in materia di flessibilità in entrata. La crisi sembra aver pesato più sull’entità degli esiti dei contratti atipici che non sulla loro funzione: nel 2010-11 il ruolo di “ponte” svolto dal lavoro non standard coinvolgeva il 5 per cento in meno di lavoratori non standard rispetto a quanto registrato nel 2005-06 (37,5 per cento contro 32,8 per cento). Pure la funzione d’ingresso nel mondo del lavoro svolta dai contratti flessibili si è ridotta: il 17 per cento delle persone in cerca nel 2005-06 approdava a un’occupazione non standard, mentre nel 2010-11 la quota si è ridotta al 12,8 per cento. Anche l’effetto-trappola si è ridotto del 11 per cento, passando dal 53,2 al 42,2 per cento. Verosimilmente questo risultato è dovuto alla minore permanenza nell’occupazione: infatti la transizione “non standard-in cerca”, nel 2005-06 interessava il 5,9 per cento della occupazione, mentre nel 2010-11 ha coinvolto il 20 per cento dei lavoratori non standard. La crisi sembra aver accentuato una sorta di effetto-rimbalzo: a causa della minore permeabilità del mercato, l’inserimento e la permanenza sono diventati più difficili.

È venuta meno anche la sicurezza del cosiddetto posto fisso: infatti, se prima l’incidenza dell’uscita dall’occupazione standard era inferiore al 2 per cento (fisiologica), nel biennio successivo è salita al 7,3 per cento.

Figura 1 – Confronto transizioni nella forza lavoro tra i periodi 2005-2006 e il 2010-2011

Fonte: Isfol Plus, panel 2005-2006 e panel 2010-2011

Pertanto la combinazione della crisi congiunturale e della debolezza strutturale della nostra economia ha determinato una diminuzione dell’occupazione, sia in termini di quantità (meno teste) che di intensità (meno ore lavorate), sia in termini di qualità (più impieghi a termine) che di valore (minori retribuzioni), con inevitabili conseguenze negative su tutto il sistema.
Banale, ma val la pena ribadirlo: avere un’occupazione non è sufficiente a raggiungere normali livelli di benessere, in particolar modo se la retribuzione non è adeguata alle necessità e l’orizzonte lavorativo è denso di nubi. Ci si trova, quindi, a poter annoverare molti lavoratori standard, dipendenti di imprese in crisi o autonomi allo stremo, in condizioni analoghe a quelle dei lavoratori flessibili, intesi come lavoratori a termine, in quanto entrambe le categorie hanno il crisma tipico della precarietà lavorativa, che comporta uno stile di vita fatto di incertezza, consumi morigerati, risparmi precauzionali, scelte sospese, prospettive brevi, e così via.

La riforma

Se l’impiego stabile è sovente un miraggio, allora tanto vale rendere i lavoratori flessibili uncontinuum dell’occupazione standard, poiché richiedono le stesse cure e hanno le stesse rivendicazioni. La risposta più sensata potrebbe essere un contratto prevalente sul modello proposto da Tito Boeri e Pietro Garibaldi, a tutele progressive e costi decrescenti (o bonus-malus), ma con i diritti (essenziali) garantiti a tutti e un welfare moderno, se il lavoro viene a mancare. (1)
A questa conclusione si può giungere, con minori implicazioni ideologiche, tenendo conto del legame pensione-lavoro alla luce della riforma della previdenza (ormai a regime) in senso contributivo la quale comporta, in termini attuariali, che solo piene, costanti e buone contribuzioni consentiranno una pensione adeguata. Ciò richiede una normalizzazione degli aspetti retributivi e previdenziali (contabilità e portabilità previdenziale totale) oltre che una nuova organizzazione del lavoro.
Su questa linea pare collocarsi il disegno di legge del ministro Poletti che propone un intervento a due stadi: una prima liberalizzazione del rapporto di lavoro a termine (più quantità) e poi una complessiva semplificazione, con l’introduzione del contratto unico a tutele progressive (più qualità), sperando che la prima tamponi l’emergenza e la seconda sia sostenuta dalla ripresa economica. Il rischio, già visto nel passato, è che la prima fase si trascini a oltranza. (2)
L’innovazione normativa è spesso avvenuta in un clima emergenziale: si pensi alla “riforma Fornero” o al “fiscal compact”, provvedimenti assai rilevanti presi d’urgenza, con un dibattito inversamente proporzionale agli effetti pratici che avranno sulla vita delle persone.(3)Questa logica è divenuta pervasiva. Di conseguenza, in tempi di elevata disoccupazione, molti convergono sulla necessità di adottare qualsiasi strategia sia in grado di creare occupazione, facendo venire meno le reticenze nel superare la soglia del lavoro dignitoso.(4)
L’emergenza fa derogare dai principi con conseguenze non transitorie: infatti in futuro, la previdenza, la sanità o l’istruzione – in generale, i consumi e il benessere – dipenderanno solo dal proprio lavoro e dalla ricchezza della propria famiglia. Allora si compirà la cesura definitiva tra individui e collettività: i destini dei cittadini saranno totalmente indipendenti gli uni dagli altri. Non è difficile immaginare quali rischi di tenuta sociale comporterà presto una marcata regressione sociale ed economica.

* Gli autori sono ricercatori Isfol, Dipartimento Lavoro e Professioni. Le opinioni espresse non impegnano l’Istituto

(1) È cruciale che le attuali forme atipiche concorrenti vengano eliminate. Tuttavia, un contratto unico forse è un po’ poco, poiché una forma di impiego episodico è necessario. Una sorta di lavoro interinale puro o mini-job circoscritti. Un’altra eccezione sono i contratti con contenuto formativo (e siamo già a due) o mirati all’inserimento di target specifici (e tre).
(2) I presagi non sono buoni. Mentre il decreto Poletti ha impegnato – in maniera piuttosto originale per un testo giuridico – il Parlamento “all’adozione di un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro con la previsione  in via sperimentale del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente”, il disegno di legge delega ora in discussione prevede, con una formula più incerta, “la redazione di un testo organico di disciplina delle tipologie contrattuali dei rapporti di lavoro, semplificate (…) che possa anche prevedere l’introduzione, eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali espressamente volte a favorire l’inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti”.
(3) Massimo Cacciari nota come “il regime d’emergenza sia criminogeno per natura”.
(4) Il limite inferiore è (era) l’articolo 36 della Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

* Isfol, Dipartimento Lavoro e Professioni. Responsabile dell’Indagine Isfol PLUS. Ha insegnato all’università degli studi di Torino, Urbino e Roma. Tematiche d’interesse: mercato del lavoro, partecipazione giovanile e femminile, occupazione standard e atipica, ricerca di lavoro

** Manuel Marocco è ricercatore presso l’Isfol. È dottore di ricerca in Diritto delle relazioni di lavoro e suoi principali temi di studio sono i servizi per l’impiego, gli ammortizzatori sociali e il lavoro atipico. 

*** Ricercatore Isfol, Dipartimento Lavoro e Professioni. Gruppo di lavoro Indagine PLUS. Tematiche d’interesse: mercato del lavoro, intermediazione formale ed informale, ricerca di lavoro, transizioni lavoro non lavoro, over-education.

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