Il caso specifico della Grecia: il topo da laboratorio della nuova governance europea
Il paese che in modo tragicomico Mario Monti aveva definito il grande successo dell’euro, la Grecia, dopo tre anni di Troika vive una situazione praticamente post-bellica. Con il 28% di disoccupazione, uno Stato sociale che semplicemente non esiste più e con la progressiva perdita di tutti i “gioielli di Stato” a causa delle privatizzazioni imposte tra le “rigorose condizionalità”, il Paese culla della democrazia è oggi il prototipo di quello che potrebbe accadere a tutte le nazioni che si troveranno costrette a richiedere, per qualunque ragione di volatilità dei mercati non legati ai fondamentali economici, l’intervento del MES.

Alcuni dati forniti recentemente da Macropolis ci possono dare il senso del dramma in corso in Grecia: il 34.6% della popolazione vive a rischio povertà o esclusione sociale (dati del 2012), il reddito dei proprietari di immobili si è contratto del 30% dall’inizio della crisi, con circa un terzo che dichiara ormai di essere indietro con i pagamenti e il 40% che non è in grado di adempiere a tutte le scadenze per quest’anno.
La Public Power Corporation slaccia la corrente a circa 30 mila case ed uffici al mese per bollette non pagate. La disoccupazione è cresciuta del 160% complessivo e oggi 3,5 milioni di persone occupate devono tenere in vita i 4,7 milioni di disoccupati o inattivi. Solo il 15% dei disoccupati poi riceve assistenza finanziaria dallo Stato, non c’è, infine alcun welfare poi per i lavoratori autonomi – o partite IVA – che rappresentano il 25% della forza lavoro del Paese. I trasferimenti sociali sono stati tagliati di oltre il 18%, i tagli alla sanità di oltre l’11,1% tra il 2009 e il 2011 e sono i maggiori mai registrati nella storia dall’Ocse. Almeno il debito pubblico sarà per lo meno ora sotto controllo? Non proprio. Al 169% del Pil, la Grecia resta un paese fallito.

A esser onesti l’intervento del MES e della Troika un beneficio l’ha prodotto: le banche creditizie del Nord Europa hanno potuto recuperare i loro crediti altamente esposti nel paese, mentre al governo di Atene sono rimaste le briciole dei vari miliardi di “aiuti” erogati dai creditori internazionali. Solo il 19% del denaro dei salvataggi è finito infatti nelle casse greche, il 18% alla BCE, il 23% alle istituzioni finanziarie greche, cioè ancora alla BCE della quale sono parte, e quindi i greci non possono beneficiarne pienamente; mentre il 40% è andato ad assicurazioni, banche e compagnie finanziarie al di fuori della Grecia. Praticamente il 58% del salvataggio della Grecia non va alla Grecia. Considerando poi i cosiddetti accordi di repurchase stipulati dalle istituzione greche, il dato, calcola Zero Hedge, supera anche al 70%.

La minaccia della mancata erogazione da parte della Troika della nuova tranche di “aiuti” ha costretto e costringerà i Paesi – rientrano anche Cipro, Portogallo, Irlanda e in parte la Spagna in questa logica – a sottostare alle “rigorose condizionalità”. In un momento di crisi finanziaria, economica e sociale come quella attuale, gli interventi di “salvataggio” possono essere all’ordine del giorno: nel momento in cui si affida agli Stati economicamente più forti, al di fuori del diritto dell’UE, la possibilità di poter dettare delle “misure rigorose” – oltre che dell’agenda economica anche quella politica – il MES e il suo braccio armato della Troika si sostituisce di fatto alle istituzioni nazionali. Al di là della convenienza finanziaria questo è l’aspetto che deve essere posto al centro del dibattito.

Qualcosa si muove dal Parlamento europeo: troppo poco e troppo tardi
Non solo coloro che la stampa mainstream bolla come “eversivi populisti” hanno iniziato a comprendere come il MES – e la nuova governance che si è voluta creare – rappresenti una grave minaccia ai sistemi democratici europei. Incaricato dalla Confederazione europea dei sindacati di esaminare la legittimità dei cosiddetti protocolli di intesa (MOU), il professore di diritto europeo all’Università di Brema Andreas Fischer Lescano ha sostenuto come “ci sono dei limiti a ciò che si può scrivere in un memorandum d’intesa. La Troika ed i MOU non possono essere oltre la legge”. Di fatto, i creditori internazionali della Troika – Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale – violano, secondo Fischer-Lescano, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, un testo giuridico divenuto vincolante per gli Stati membri nel 2009. Per questo, le misure di austerità sancite dai memorandum d’intesa, soprattutto per quel che riguarda lavoro, sanità e istruzione, potrebbero essere impugnate dai tribunali europei.

Di particolare interesse è poi la relazione redatta per il Parlamento europeo, approvata il 12 febbraio a larghissima maggioranza (27 sì, 7 no dei conservatori e di qualche liberale, 2 no della Sinistra Unita) dalla Commissione lavoro, del relatore spagnolo Alejandro Cercas, che accusa senza mezzi termini come “Eurogruppo, BCE e FMI” abbiano “violato leggi e trattati” e provocato negli ultimi quattro anni “una catastrofe sociale e politica” senza precedenti in Europa. Ancora più importante è la relazione “Indagine sul ruolo e le attività della Troika (BCE, Commissione e FMI) relativamente ai Paesi dell’area dell’euro oggetto di programmi” con relatori Othmar Karas e Liem Hoang Ngoc, approvata dalla Commissione economia e nella quale si arriva addirittura a chiedere la fine dell’esperienza della Troika, tra l’altro per la mancanza di trasparenza democratica interna e il conflitto d’interessi di Banca centrale e Commissione. Il Parlamento in seduta plenaria voterà questa relazione a aprile. Ma, ampiamente compromesso e pienamente responsabile del fallimento della gestione della crisi della zona euro, il suo gesto sarà una tardiva presa di posizione che non potrà cambiare il giudizio complessivo sul suo operato. Al contrario, se nelle prossime elezioni di maggio dovessero prevalere le cosiddette forze euroscettiche, quella stessa relazione potrà rappresentare la base per la prima profonda scossa della struttura economica europea.

Quali difese sono rimaste oggi agli Stati? 
Viene da chiedersi come mai nessuno si sia opposto a uno strumento che quando ha utilizzato ha avuto solo effetti devastanti.Per la verità nel 2012 un deputato del parlamento irlandese, Thomas Pringle, ha contestato presso la Corte di giustizia europea il procedimento nazionale di ratifica del MES. Secondo Pringle l’utilizzo della procedura di revisione semplificata sarebbe stato illegittimo poiché non era applicabile all’introduzione di un meccanismo che andava pesantemente ad incidere sull’intera politica economica e monetaria dell’Unione. In secondo luogo, il deputato si chiedeva se il MES per le sue gravi implicazioni sociali non fosse in contrasto con quei valori di crescita economica sostenibile e di solidarietà che stanno a fondamento dell’Unione Europea.

Ciò che in sostanza si constatava era la conformità del MES ai trattati europei, ed in particolare al Trattato di Lisbona, che aveva inglobato al suo interno anche la Carta dei diritti di Nizza. Come è noto la Corte ha rigettato il ricorso, ma è altrettanto noto che a livello europeo numerosi sono stati nella dottrina i commenti critici, tanto che è molto probabile che in futuro sorgano ulteriori controversie.
In molti hanno iniziato a sottolineare come il MES abbia prodotto un sostanziale mutamento della governance economica europea ormai affidata ad una tecnocrazia che ha depotenziato sia la sovranità degli Stati, sia le istituzioni democratiche europee.

Per salvare una moneta si sono indeboliti i Parlamenti nazionali e il Parlamento europeo. La sovranità finanziaria di bilancio non spetta né agli Stati nazionali e neppure all’Unione, ma ad un’oligarchia tecnocratica transnazionale priva di qualsiasi legittimità democratica ed immune da qualsiasi controllo. Per salvare un mostro, una moneta nata male e proseguita peggio, stiamo facendo a pezzi le nostre Costituzioni e ora perfino quei diritti che l’Unione Europea con la Carta dei diritti di Nizza intendeva tutelare.

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