Papa Francesco propone una Chiesa povera e per i poveri. La Comunità europea va invece in controtendenza: riservata ai ricchi, favorisce i paesi più ricchi.

Quattro tra le nazioni più “benestanti” (Germania, Austria, Gran Bretagna e Olanda) hanno infatti chiesto alla Commissione Europea di poter tagliare l’assistenza sociale e sanitaria a quegli immigrati comunitari che non hanno un rapporto di lavoro e, anzi, di poterli espellere dopo tre mesi di soggiorno. Il che appare come un inqualificabile passo indietro; un ritorno alle condizioni iniziali della sovranità nazionale, come se tutto il processo di integrazione europea (dove è prevista la libera circolazione delle persone e la garanzia di uguali diritti) non fosse mai esistito.

Una misura presa per frenare il “turismo assistenziale” proveniente soprattutto dai paesi dell’est, i più poveri, dove i servizi sociali e sanitari sono meno “generosi”, che incrina il già precario equilibrio di un’Europa a due velocità, preda di una crisi economica di cui non si vede la fine.

Dove due velocità non significa procedere più o meno rapidamente verso il raggiungimento di obiettivi comuni, ma muoversi in condizioni dissimili, tollerabili soltanto se temporanee e utili a superare un’impasse iniziale, che non possono cristallizzarsi in una situazione di fatto, che si perpetua nel tempo e accresce le differenze fra nazioni privilegiate e non.

Questa Europa non è uguale per tutti: vi sono paesi che godono di un miglior tenore di vita, hanno un prodotto interno lordo ragguardevole, migliori servizi sociali, un’economia florida, conti in pareggio, debito pubblico al minimo, al punto da costituire un punto di riferimento per gli altri, che vi si devono adeguare.

E paesi come l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo e ora Cipro (curiosamente tutti paesi della fascia mediterranea) che stentano a stare al passo. Al confronto, le condizioni economiche tra Germania e Grecia mostrano differenze abissali. Eppure usano la stessa moneta, godono degli stessi diritti. Si tratta di popoli diversi, si dirà. Ma questo ha poca importanza quando si cancellano le frontiere, si prendono decisioni assieme e si entra a far parte della stessa comunità. Siamo europei, prima che tedeschi o greci, italiani o spagnoli. Europei, a meno che questa non sia che una definizione formale.

Significa, allora, che qualcosa non va in Europa. Che così non può funzionare. Che la soluzione non può essere quella di mettere in ginocchio Cipro e la Grecia, e poi, a turno, tutti i paesi in difficoltà che non tengono il passo con quelli più ricchi. Che bisogna pensare in termini comunitari.

Anche qui il fattore “uguaglianza” ha il suo peso, anzi ne ha uno maggiore, perché non si tratta solo di riconoscere un diritto universale, ma di far godere degli stessi benefici e delle stesse opportunità a tutti i cittadini di una medesima comunità.

Per questo eleggiamo i nostri rappresentanti al Parlamento europeo, per questo abbiamo una serie di enti, organizzazioni, uffici, comitati e organismi (tra cui la Bce) di natura sovranazionale, che si definiscono “europei” e dai quali riceviamo input continui, suggerimenti, imposizioni, ordini di adeguamento, regolamenti, sanzioni.

L’Europa a due velocità non ha senso. L’idea di Europa unita non è in discussione, ma ciò che è in discussione sono le regole che la governano. I regolamenti, le condizioni e le leggi di una “governance” che finisce per discriminare le nazioni più deboli: cosa a cui, prima o poi, qualcuno dovrà pur cominciare a pensare.

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