Al di là delle ideologie, buone o cattive che siano, ci sono i fatti. E su questo piano è arduo smentire il fallimento dell’esperienza Monti. Dati relativi alla disoccupazione, al debito pubblico, alla povertà, allo smantellamento dei servizi sociali, all’inquinamento ambientale. A tutti gli indici, sia di carattere economico, quelli che piacciono tanto agli economisti puri e duri, che di carattere sociale ed ambientale.  
Quali le ragioni di tale innegabile fallimento? Ne voglio indicare due.
Sul piano dei suoi riferimenti sociali, la subalternità di Monti e della sua squadra alle forze più retrive esistenti in Italia, le stesse per intenderci che ci hanno portato nel vicolo cieco attuale. La finanza, le banche, ma anche i settori meno innovativi del padronato, a cominciare dall’espatriato Marchionne, e i settori apicali delle varie caste, superburocrati inefficienti quanto pagati a peso d’oro. La netta dipendenza del professore da questi ceti che paralizzano da sempre ogni vera innovazione nel nostro Paese spiega buona parte del suo fallimento. A parte qualche misura cosmetica, come l’invio della Guardia di Finanza a fare un po’ di scena in luoghi di villeggiatura da ricchi, non c’è stato alcun tentativo serio di sanare l’evasione fiscale. Non c’è uno straccio di politica industriale. Si continuano a mazzolare i poveri e i lavoratori riducendo le pensioni, allungando l’età pensionabile, permettendo i licenziamenti arbitrari, estendendo l’area della precarietà, distruggendo scuola, ricerca e sanità, tentando di privatizzare tutto il possibile.

Alla gabbia sociale costituita dalla salvaguardia degli interessi costituiti che non vengono neanche sfiorati, si aggiunge quella ideologica rappresentata dall’impossibilità per Monti e i suoi accoliti di intendere la realtà, perché accecati dall’ideologia neoliberista. Quella stessa ideologia, per intenderci, che sta facendo a pezzi l’Europa e rendendo impossibile ogni futuro. 

Per uscire dalla crisi è invece necessaria una netta svolta politica, sociale e culturale. Per questo le prossime elezioni sono importanti. Un problema sul quale va attirata l’attenzione che non a caso non a ricevuto dai “professori” è quello della produttività del lavoro e del capitale. Ho letto in merito di recente due interessanti contributi, uno sul Manifesto e uno su Internazionale. Krugman, su Internazionale, accenna alla bassa produttività del lavoro in Italia, ma non sa darsene una spiegazione. Perri, sul Manifesto, mette invece l’accento giustamente l’accento sulla scarsa produttività del capitale. Temi sui quali dovremo tornare.

Senza risolvere questo problema l’Italia non ripartirà, nonostante le patetiche professioni di fede di Supermario. E questo problema non può essere risolto da lui per effetto dei condizionamenti che ho evocato.

Data la figura barbina fatta da questo governo e i suoi limiti evidenti stupisce la cecità recidiva con la quale la classe politica nella sua grande maggioranza continua ad appoggiarlo. E qui non mi riferisco tanto al Pdl alla deriva, che si aggrappa a Monti come a una zattera di salvataggio confidando nelle comuni appartenenze di classe, quanto al Pd, il cui pragmatismo senza principi non può certo essere nascosto dal relativo successo delle primarie. Date queste condizioni, e il fatto che il Pd si avvia comunque ad essere il partito di maggioranza relativa, mi pare ci siano tre elementi da analizzare.

Il primo è l’affermazione del Movimento Cinque Stelle, che potrebbe superare taluni limiti di funzionamento democratico interno e porre al primo posto i contenuti più positivi presenti nel suo programma, sui quali ho già avuto modo di attirare l’attenzione. Parole sensate al riguardo mi pare abbia scritto anche Piero Ignazi sull’ultimo Espresso.

Il secondo è è il prevalere di Bersani nelle primarie del Pd: sempre meglio di Renzi, anche se confesso che stavolta non ce l’ho fatta ad andare a votare e con l’emergere nel suo entourage di qualche barlume di posizioni antiliberiste (vedi ad esempio l’intervista di Fassina su Repubblica di oggi), con la prospettiva di una probabile divaricazione di posizioni con la consistente minoranza renziana smaccatamente neoliberista.

Il terzo è la nascita avvenuta sabato a Roma di un nuovo raggruppamento politico, “Cambiare si può”, che si presenta con un programma in venticinque punti tutti condivisibili e importanti e l’intento, non meno decisivo, di rompere in modo netto con l’andazzo abituale delle forze politiche di questo Paese. Si aggiunga la convergenza di un insieme di forze di sinistra (IdV, Rifondazione, arancioni di De Magistris) su di un’ipotesi di lista di opposizione ed alternativa.

Ho firmato da tempo l’appello di  “Cambiare si può”, e mi riprometto di partecipare alle sue attività su scala locale e se possibile nazionale, perché ritengo si ponga in Italia l’esigenza di un polo nuovo e diverso, in grado di far tesoro delle esperienze più positive e importanti della nostra storia, dalla Resistenza al Sessantotto, canalizzando le migliori energie espresse anche da altri raggruppamenti in quell’ottica di trasformazione sociale ed economica e di alternativa, senza la quale non si esce dalla crisi, come dimostrato proprio dall’innegabile fallimento dell’esperienza Monti. Da buttare subito nell’immondezzaio della storia, unitamente a quella se possibile ancora peggiore che l’ha preceduta. Per dare finalmente al nostro Paese un governo degno di questo nome e delle pagine migliori della sua storia.

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