La settimana scorsa la Commissione europea avrebbe dovuto presentare un ambizioso progetto di direttiva che avrebbe obbligato tutte le grandi aziende europee quotate in borsa (ad eccezione delle Pmi, di quelle con meno di 250 impiegati e un fatturato inferiore ai 50 milioni annui) ad avere almeno il 40 per cento di donne nei Cda non esecutivi. Era da mesi che si aspettava l’annuncio della Commissaria Ue alla Giustizia, la lussemburghese Viviane Reding. Eppure alla fine qualcosa è andato storto.

In una conferenza stampa per pochi intimi, la Reding ha annunciato che il Collegio dei Commissari (l’insieme dei 27 Commissari Ue) sta ancora cercando un compromesso sul testo finale della proposta. Palpabile la delusione della Commissaria che da mesi, anzi da anni, cerca di fare qualcosa per le pari opportunità delle donne in Europa (Video). Nel marzo 2012 la Reding aveva invitato le grandi aziende europea ad aumentare la presenza femminile nei Cda su base volontaria, ma come si dice, campa cavallo. Ecco che la nuova legislazione europea avrebbe dovuto non soltanto ovviare a questa situazione ma, e soprattutto, dare un segnale a un’Europa, politicamente e economicamente ancora troppo al maschile.

Al Parlamento europeo si è assistito ad un acceso dibattito sullo spazio che dovrebbe essere riservato alle donne all’interno delle stesse istituzioni europee che, secondo buona parte degli eurodeputati, dovrebbero dare l’esempio ai governi nazionali e al mondo dell’impresa, arruolando più donne al loro interno. Com’è stato fatto notare in Aula, se è vero che più della metà del personale del Parlamento è donna, salendo lungo la gerarchia di potere questa percentuale crolla drasticamente, basti pensare che nella sua storia il Parlamento ha avuto solo 2 donne presidenti su 29 totali. Peggio ancora nelle altre istituzioni. Alla Commissione europea 9 Commissari su 27 sono donna. Non male si penserà, ma attenzione: i portafogli più importanti sono saldamente in mano agli uomini (la Presidenza, Affari Monetari, Mercato Interno, Energia, Industria, Trasporti). Peggio ancora alla Bce, istituzione che negli ultimi mesi sta vivendo una moltiplicazione esponenziale di potere e che presenta un board al 100 per cento di uomini, situazione che in settimana è costata la bocciatura del candidato lussemburghese Yves Mersch da parte dell’Europarlamento.

Ma attenzione, il sesso (e tutto il resto) dei Commissari e dei membri della Bce dipende dagli Stati nazionali, in quanto queste figure vengono o sono proposte proprio dai governi nazionali. Ed è qui che arriviamo al nocciolo del problema. L’opposizione alle quote rosa proposte dalla Reding da parte delle Commissarie Ue (donne) come la svedese Malmstrom (Immigrazione), l’olandese Kroes (Telecomunicazioni), la danese Hedegaard (Cambiamento climatico) e l’inglese Catherine Ashton (Affari esterni), va letta alla luce della lettera inviata a fine settembre da ben nove Paesi Ue a Barroso in cui si lamentava un’intromissione di Bruxelles in affari strettamente nazionali. Nel dettaglio si tratta di Gran Bretagna, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta e Olanda.

Mettere il dito su questioni strettamente riguardanti il mondo del lavoro da parte dell’Ue resta infatti pericoloso. I Paesi più liberisti, come quelli del Nord Europa, sono infatti pronti alle cosiddette levate di scudi, donne o non donne. È successo per quanto riguarda l’armonizzazione dei congedi di maternità e l’istituzione delle due settimane retribuite di paternità (chiesto dal Parlamento europeo nell’ottobre 2010 e poi bloccato dai governi nazionali in sede di Consiglio), ma si ripete ogni qualvolta c’è da stringere sulle regole a tutela dei lavoratori, ad esempio nel contesto della Direttiva Ue su sicurezza e salute sul luogo di lavoro. In questi giorni a fare le spese di questa “allergia da intromissione Ue” sono le donne, che restano al 13,7 per cento (media europea) dei Cda delle imprese che contano. Ma come si dice, la libertà del mercato è sacra…e in questo caso pure “maschia”.

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@AlessioPisano

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