Oggi sono stato invitato a un seminario all’università’ di Berkeley sul futuro del welfare state per portare una prospettiva ‘europea’ al dibattito. Fra le tante discussioni intavolate, l’ultima ora del seminario si è interamente sviluppata intorno al tema: le politiche pubbliche devono essere scelte interamente sulla scia di studi empirici e ricerche accademiche o l’ideologia deve ancora giocare un ruolo determinante?

La distanza fra gli Stati Uniti e i paesi europei (tuttavia anche all’interno del nostro continente la differenza è molto ampia) è molto marcata. Negli Stati Uniti da parecchi decenni la maggior parte delle politiche votate dal congresso in materia sociale sono basate sui cosiddetti ‘Randomised Controlled Trial’ (RCT). Si tratta di ricerche sperimentali in cui si misura l’effetto dell’introduzione di una politica pubblica, dividendo i soggetti sottoposti all’esperimento in due gruppi: uno sul quale si interviene con l’implementazione della politica in questione e l’altro sul quale non lo si fa. In questa maniera si dovrebbe osservare per differenza l’effetto della politica in questione. Questa metodologia di ricerca è direttamente mutuata dalle scienze naturali (anche se è importante sottolineare che creare un esperimento perfetto come nelle scienze naturali e’ praticamente impossibile in società ! Grazie a Dio aggiungerei…). 

Anche in Inghilterra questa prassi, cosi come negli Stati uniti, è largamente diffusa, specie dopo l’avvento dei governi di Tony Blair. Uno degli obiettivi del leader laburista era proprio quello di trasformare la politica in un fatto scientifico, di perseguire l’implementazione di misure che fossero chiaramente suffragate da una vasta evidenza empirica.

E così, sulla base di questi studi i governi laburisti iniziarono a riformare le politiche sociali. Pensate per esempio, alla progressiva introduzione di una classifica di tutte le scuole del Regno Unito. Oggi, ogni scuola in Gran Bretagna (cosi come ogni università) riceve i finanziamenti pubblici sulla base della sua ‘performance’. Questo approccio viene spesso invocato anche nel nostro paese. L’Italia vive una situazione opposta rispetto a quella statunitense o inglese; non esistono nella pratica sistemi di valutazione delle politiche pubbliche ed anche quando esistono, questi sono spesso lacunosi o mal implementati.

Negli Stati Uniti e in Inghilterra la creazione di rigidi parametri per giudicare l’efficienza delle politiche pubbliche ha generato moltissimi problemi ed ha, in un certo senso, progressivamente ridotto (assieme all’avvento del capitalismo globale) lo spazio di manovra e di scelta dei partiti.

In pratica il ruolo per le ideologie è venuto assottigliandosi con il dominio di un certo tipo di capitalismo finanziario, e con l’idea che non si scelgono le politiche pubbliche perché afferenti ad uno schema di pensiero ma perché funzionano o perché dovrebbero funzionare sulla base di approfondita ricerca empirica. Da accademico, ma anche da semplice residente in Inghilterra, mi sono reso conto che spesso nei fatti queste valutazioni fanno acqua da tutte le parti, perché basate su parametri sbagliati o semplicemente perché, a volte, gli obiettivi e il raggiungimento dei risultati sono difficili da misurare nel breve periodo.

Tuttavia ogni qualvolta mi accosto al dibattito pubblico italiano, vedo solo vuota retorica ideologica (si badi bene non ideologia!) e mai uno straccio di evidenza empirica per supportare l’attuazione di nuove politiche sociali o semplicemente per monitorare come vanno le cose in molti settori della pubblica amministrazione.

In conclusione, mi chiedo: è possibile trovare una via intermedia per il nostro paese che rifugga dall’empirismo spinto degli anglosassoni ma che allo stesso tempo non si sottragga al tentativo di rendere gli sforzi della pubblica amministrazione più trasparenti e misurabili?

Attendo i vostri commenti.  

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