La storia degli ultimi 3 anni dell’Aquila e della (r)esistenza quotidiana dei suoi abitanti può essere agevolmente letta attraverso gli insegnamenti di Michel Foucault e David Harvey. La chiave di lettura qui non è il tempo, ma lo spazio.

Le misure adottate per far fronte ai danni causati dal terremoto del 6 aprile 2009, oltre ad aver portato flussi di denaro nelle mani di varie “cricche”, hanno dato il via anche ad un mega-esperimento sociale, ovvero hanno creato le condizioni per la sperimentazione di un nuovo modello sociale, attraverso la riorganizzazione degli spazi.

Come? In un primo momento attraverso la costruzione di mega-tendopoli per i ‘senzatetto’, ovvero: campi chiusi, recintati, sorvegliati militarmente, controllati tecnologicamente (tesserino di accesso per ogni residente del campo e “autorizzazione all’accesso” per gli “esterni” al campo), organizzati gerarchicamente, posti fissi per gli abitanti, mobilità controllata (ordine di segnalare all’autorità eventuali spostamenti dal campo).
In seguito, attraverso la costruzione di nuovi spazi abitativi, ossia la c.d. “new town”, tutta plasmata sul dispositivo disciplinare.
Foucault, in Sorvegliare e punire, descrive la costruzione del sistema compatto di dispositivo disciplinare attraverso le misure adottate dal potere per sconfiggere la peste. Il terremoto dell’Aquila ha creato l’occasione per costruire uno simile schema disciplinare, ovvero un’architettura del controllo dall’alto. Foucault spiega anche che dietro l’ossessione del potere per la peste c’era l’ossessione per tutto ciò che era radicalmente “altro”, ivi compresa la paura per le possibili rivolte in tempi di crisi.

Infatti, i modelli di città che si delineano all’Aquila dopo il terremoto, sia il campo recintato e sorvegliato che “L’Aquila 2”, simboleggiano l’ideale della “città perfetta”: ordinata, disciplinata e controllata. Città in cui nulla si può muovere senza autorizzazione o senza essere visto, sorvegliato. Il ruolo della “città perfetta” è assegnato in particolar modo all’Aquila 2, nuovo spazio sponsorizzato direttamente dall’ex Presidente del consiglio che, in lunghi spot televisivi, ci ha mostrato soddisfatto perfino le pentole e le posate delle ordinate abitazioni della “new town”. In piena crisi (anche il terremoto è una crisi), dunque, la soluzione scelta fu quella di affidare tutto il potere a Bertolaso, capo della Protezione Civile, e di puntare all’utopia disciplinare, oltre che agli affari (ça va sans dire!).

Anche Napoleone Bonaparte, del resto (figura storica spesso evocata dall’ex presidente Berlusconi), dopo la terribile crisi economica del 1848, diede ad Haussmann l’incarico di costruire una città ordinata e disciplinata. Haussmann obbedì e procedette alla distruzione dei vecchi bassifondi di Parigi, espropriando ed allontanando gli abitanti, cioè i poveri e gli operai, in nome del progresso civile e del rinnovamento, dando vita così ad una nuova forma urbana che avrebbe dovuto garantire, secondo quanto richiesto da Napoleone, maggiori livelli di sorveglianza e di controllo militare, nonché la rapida repressione dei movimenti rivoluzionari (anche se poi la storia lo smentì clamorosamente nel 1871).

La scelta del Governo e della Protezione Civile, dunque, di svuotare e recintare il vecchio centro e di realizzare, nel contempo, una “new town” in un luogo anonimo in periferia, non è affatto casuale, oppure dettata dalla mera “emergenza”. A distanza di 3 anni e alla luce delle inchieste giudiziarie nonché dei miliardi pubblici stanziati per la realizzazione di tutto ciò, tali scelte non appaiono affatto casuali. Quel terremoto sembra essere stato “sfruttato” per realizzare e sperimentare molto altro: ovvero nuovi modelli di socialità. Perché lo spazio in cui viviamo ci definisce e modella le nostre relazioni sociali.

La scelta della città che vogliamo non può essere separata da quella di un certo tipo di legami sociali, di rapporti con l’ambiente naturale, di stili di vita, di tecnologie e di valori estetici”, afferma David Harvey, rivendicando un inedito, quanto trascurato, “diritto alla città” (The right to the city, New Left Review, Ottobre 2008). Significa che il diritto alla città non si esaurisce nella libertà individuale di accedere alle risorse urbane, ma è il diritto di cambiare noi stessi cambiando la città”, perché costruendo la città costruiamo noi stessi.

Ed è chiaro che gli aquilani non possono stare molto sereni e fiduciosi nel vedersi costruiti, formati e modellati come individui e come collettività da un Napoleone, un Haussmann, un Berlusconi o un Bertolaso. Gli aquilani hanno diritto alla loro città!

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