Cultura

Acab il film, “tre celerini bastardi”
tra odio e violenza e fascinazioni neofasciste

Sullo sfondo dei più cruenti episodi di violenza degli ultimi anni, il ritratto e le contraddizioni di tre poliziotti della celere, “reduci” dal G8 di Genova. Il film, tratto dal libro del giornalista di Repubblica Carlo Bonini uscirà nelle sale il 27 gennaio

di Gabriele Paglino
Il cast di Acab

Uscirà nelle sale il prossimo 27 gennaio, ma la polemica è già scoppiata da alcune settimane. Presentato oggi il film tratto dal libro omonimo di Carlo Bonini (basato su una storia vera), già nel titolo ci anticipa qualcosa: Acab è l’acronimo di “All cops are bastards” (“tutti i poliziotti sono bastardi”) slogan introdotto dai movimenti skinhead inglesi e adottato successivamente da tifoserie, antagonisti e altri gruppi della galassia estremista, quasi come un stile di vita, un motto da tatuaggio, da tag, da rivolta di piazza. Un odio del tutto ricambiato.

Cobra, Negro e Mazinga (al secolo Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro e Marco Giallini), sono tre poliziotti del reparto mobile di Roma. Tre celerini, reduci dal G8 di Genova (l’argomento viene soltanto accennato), compromessi, paradossalmente quasi segnati: ”E’ stata la più grossa stronzata della vita nostra (…) ci hanno fottuto con la storia della Diaz”, dice Mazinga, riferendosi all’irruzione notturna nella scuola in cui dormivano i manifestanti.

Tre “guardie” con il mito del fascismo: alla fascinazione nostalgica per ordine e disciplina, ne viene contrapposta un’altra più moderna, quella appunto dei movimenti neofascisti, frequentati dal figlio di Mazinga, in cui l’ideologia dell’odio del diverso da sé, rivolta anche nei confronti delle forze dell’ordine, è accompagnata dalla musica dei gruppi fascio-rock, stile Sotto Fascia Semplice o Zeta zero Alfa.

Tre “gladiatori” – emblematico il graffito all’interno della caserma che raffigura i poliziotti come dei lottatori dell’antica Roma – in una società permeata dall’odio, abituati ad usare la violenza oltremisura. Non tanto perché è la natura stessa della professione ad imporlo, ma quasi per necessità, per soddisfare quella voglia di picchiare, di scaricarsi dalle varie ansie (come quella di non poter più rivedere la propria figlia, nel caso del personaggio di Negro) e frustrazioni: quella di non avere una donna, nel caso di Cobra; di prendersi dalla gente anziché gli onori – come succede magari per chi sta in altri reparti – soltanto gli sputi e gli insulti; di rischiare quotidianamente la vita per 1400 euro al mese e di essere costretto magari a fare il buttafuori nelle discoteche per racimolare qualcosa in più.

Tre “fratelli” tra cui c’è un legame di affettività e solidarietà inscindibile – quando sei circondato da un gruppo di tifosi invasati “puoi contare solo su quei fratelli”, dice Cobra – che accolgono a modo loro, con discutibili riti di iniziazione, l’ingresso nel reparto di una giovane recluta. “Utilizziamo i celerini per raccontare i soprusi e l’intolleranza rintracciabili ogni giorno nelle città in cui viviamo”, dice il regista Stefano Sollima. Nessun rischio quindi, come paventa qualcuno, che ne esca fuori un ritratto negativo. Nessuna criminalizzazione delle forze dell’ordine. Nessuna visione manichea. Ma solo lo spaccato di una società malata, alla quale i poliziotti di “Acab” appartengono. Il racconto di tragici pezzi di storia recente: la morte dell’ispettore Filippo Raciti, durante il derby Catania-Palermo del 2 febbraio 2007; il caso di Giovanna Reggiani, aggredita, violentata ed uccisa da un cittadino romeno nei pressi della stazione di Tor di Quinto a Roma. L’uccisione di Gabriele Sandri, il tifoso della Lazio che, l’11 novembre 2007, venne colpito in una stazione di servizio da un colpo di pistola esploso dall’agente della Polstrada Luigi Spaccarotella e il conseguente assalto alla caserme di polizia e carabinieri nei dintorni dello stadio Olimpico.

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