Forse sono cambiati i tempi, forse sono cambiati gli uomini. Di certo non sono mutate le leggi scritte e non scritte del mare. Tutte o quasi si appuntano sulla figura del comandante, in guerra e in pace. Chi abbandona la nave prima che l’ultimo marinaio e l’ultimo passeggero ne siano scesi, come avvenuto secondo le accuse per la Costa Concordia, viola  per sempre un «codice» paragonabile a un giuramento di fedeltà. Non è la semplice inosservanza di una norma prevista anche nel nostro codice della navigazione, ma una questione d’onore e dunque non è negoziabile.

Comandanti si diventa dopo lunghi anni di navigazione nei quali si impara a conoscere il mare, ma soprattutto se stessi, si misurano le capacità e il carattere, l’equilibrio e la consapevolezza del ruolo che implica una responsabilità enorme, in gergo si chiama «attitudine al comando». E non importa neppure che si navighi a bordo di una grande nave da crociera o di una piccola vela.

Il primo comandamento è sempre la sicurezza e la salvezza dell’equipaggio che deve essere perseguita ad ogni costo, sino al sacrificio estremo. Per questo il comandante a bordo è papa, re e cardinale, ha ancora – e così è da sempre – il potere assoluto, egli può arrestare e confinare equipaggio e passeggeri in cabina, può celebrare matrimoni e funerali, può decidere di sacrificare parte del carico, può persino ipotecare la nave senza il consenso del suo armatore.

E la responsabilità non è solo verso la sua nave, ma per qualunque altra che si trovi in pericolo, per la quale egli ha l’obbligo morale e giuridico di intervenire. Ma c’è di più, un legame fortissimo con la sua nave, che è una cosa viva, ha un nome e spesso un’anima, il comandante vi si affeziona come fosse la sua compagna, è lei a portarlo a salvamento nelle condizioni più estreme, è con lei che parla nelle lunghe ore di navigazione di notte nella solitudine della plancia di comando. Anche per questo non solo non deve, ma non vuole abbandonarla, preferisce perire con lei piuttosto che vederla affondare.

La storia e la letteratura marinara citano centinaia di episodi che hanno visto il comandante di una nave in procinto di perdersi mantenere sino all’ultimo istante la sua posizione e dunque il suo ruolo, il più delle volte seguendola sul fondo del mare. Ricordiamo lo straordinario coraggio dimostrato dal comandante dell’Andrea Doria, Piero Calamai, che, dopo lo speronamento in Atlantico da parte del transatlantico svedese Stockholm, nel 1956, restò a bordo sino a pochi minuti prima che l’oceano inghiottisse l’orgoglio della marina mercantile italiana, convinto solo dalle preghiere dei suoi ufficiali, tornati a bordo e forti della «minaccia» di affondare con lui se non si fosse messo in salvo.

Non sappiamo quali considerazioni abbiano indotto il comandante Francesco Schettino a mettersi in salvo prima del tempo. Né se questa responsabilità gli sia realmente addebitabile oppure se dopo aver messo in sicurezza migliaia di persone non si sia realmente reso conto che a bordo c’era ancora qualcuno. Egli ne risponderà a breve al suo armatore, alla legge e alla sua coscienza. Ma certo è che la tragedia del Giglio, allo stato dei fatti, sembra imputabile solo a un marchiano errore umano.

Anche un velista dilettante conosce l’orografia dei fondali prospicienti la zona di Giglio Porto. E dunque, se davvero la causa è stata la volontà di avvicinarsi alla costa oltre ogni ragionevole limite per consentire ai passeggeri di sventolare i fazzoletti, c’è da chiedersi cosa sia rimasto, in questo caso, dell’arte marinara, che è anche e soprattutto senso di responsabilità, prudenza e, perché no, preveggenza.

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