“È difficile dire come evolverà il ruolo del Regno Unito nell’Ue, ma un certo isolamento avverrà”. Lo ha detto in conferenza stampa Mario Monti dopo il consiglio europeo di oggi commentando il rifiuto britannico alla riforma dei trattati Ue. Secondo Monti ne è passato di tempo “rispetto al governo Blair caratterizzato dal motto in the heart of Europe”. “Diciamo che oggi sono un po’ meno in the heart of Europe”.

Ironia a parte, lo strappo della Gran Bretagna di oggi, unico paese Ue ad aver chiaramente detto di non essere del gioco nella riforma dei trattati Ue, indispensabile per una più solida stabilità finanziaria dell’Unione, non resterà senza conseguenze. Gli altri paesi non Euro, come Svezia, Ungheria e Repubblica Ceca, devono prima passare dal parlamento nazionale, ma una loro adesione nelle prossime settimane è più che probabile.

A Bruxelles il rifiuto britannico era già nell’aria. “Salvare l’Euro è importante, ma lo sono anche i nostri interessi nazionali”, così aveva esordito il Premier Cameron sulla soglia della sala del summit ieri sera, parole che equivalgono più o meno ad aprire la porta con un calcio. E come volevasi dimostrare, David Cameron non ha cambiato nel corso del vertice, nonostante i leader europei, in primis il presidente francese Nicolas Sarkozy, abbiano cercato di convincere il collega d’oltre Manica fino alle 5 del mattino.

Ma cos’è che voleva Londra? “Per accettare una riforma dei trattati a 27, Cameron ha chiesto un qualcosa che tutti noi abbiamo considerato inaccettabile, ovvero un protocollo nel nuovo trattato che permetterebbe di esonerare il Regno Unito da un certo numero di regolamenti sui servizi finanziari – ha spiegato Sarkozy – Ma noi riteniamo che una parte della responsabilità degli attuali problemi mondiali venga proprio dalla deregulation dei servizi finanziari”.

Tuttavia la richiesta “della Regina” non stupisce visto che Londra è il quartier generale della finanza europea, se non addirittura mondiale. La difesa a spada tratta di questi interessi è infatti alla base di un altro strappo britannico, quello sulla Tobin Tax. “Non perdiamo tempo su un argomento sul quale non ci sarà mai unanimità”, aveva detto all’Ecofin dell’8 novembre scorso il ministro inglese John Osborne. “Una simile tassazione è completamente inutile se non imposta a livello mondiale ma, allo stato attuale delle cose, si ripercuoterebbe solo su cittadini e pensionati”. Questo sonoro stop aveva segnato il funerale sostanziale della tassazione sulle rendite finanziarie in Europa, formalizzato poi al G20 di Cannes anche grazie alle orecchie da mercante fatte dal presidente americano Obama.

E non è finita qui. Al Consiglio Affari esteri del 18 luglio scorso, sempre la Gran Bretagna aveva fatto naufragare anche l’ambiziosa idea di creare un quartier generale di difesa europeo che avrebbe dovuto essere in grado di intervenire tempestivamente in caso di crisi e soprattutto di evitare caotiche missioni militari come quella in Libia, con metà Paesi Ue aderenti a metà no. Anche in quell’occasione erano tutti d’accordo, tranne Londra, che però gode di diritto di veto. Costa troppo, è un doppione della Nato ed è meglio migliorare quello che c’è già, erano state le tre motivazioni del no thanks del ministro degli Esteri britannico William Hague. E meno male che la proposta era stata avanzata dall’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza Catherine Ashton, british al 100 per cento.

D’altronde di questi tempi a Londra bisogna stare attenti a pronunciare le parole “Unione europea”.

All’Europarlamento molti si devono ancora riprendere dall’infuocato discorso di Nigel Farage, leader dell’UK Independence party e co-presidente del gruppo Europa della Libertà e della Democrazia (il gruppo politico nel quale rientra la Lega Nord) tenuto lo scorso novembre. In tre minuti Farage ha attaccato frontalmente tutti i leader europei, parlato di fallimento dell’Euro e di un’Europa dominata da un regime tedesco, nonché difeso Berlusconi e criticata la sua sostituzione con Mario Monti.

Uno spirito aggressivo ma che ultimamente sembra andare per la maggiore oltre la Manica. Lo scorso settembre il Premier Cameron è riuscito a scongiurare un referendum sull’uscita stessa della Gran Bretagna dall’Ue, iniziativa che aveva raccolto oltre 100mila firme ed era stata appoggiata da deputati sia liberali che conservatori. Ma questa volta l’inquilino del numero 10 di Downing Street non è riuscito a sottrarsi alla pressione del suo stesso partito, sempre più orientato a chiudere certi rapporti con il continente. A Londra, in attesa del summit di questi giorni, i tories Iain Duncan Smith e Nick Clegg non avevano smesso un secondo di tuonare contro un ipotetica modifica dei trattati Ue che avrebbe potuto ledere gli interessi della Regina, o meglio della sterlina.

Si perché, gira gira, di questo si tratta. Londra è pronta a dire No a tutto tranne a una cosa: il mercato interno europeo, fonte di cospicui guadagni e forti investimenti. Lo ha ammesso, con un pizzico di faccia testa, lo stesso Cameron a Bruxelles: “Non siamo nella moneta unica e non vogliamo essere nella moneta unica, non siamo all’interno degli accordi Schengen e sono felice di questo. Ma il cuore della nostra relazione, il mercato unico, il commercio, gli investimenti, la crescita e i posti di lavoro, resta come prima”. Insomma, come recita un famoso detto padano, “padroni a casa nostra”…ma solo dove conviene.

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