Il 2011 è stato l’anno delle rivolte arabe, una sollevazione popolare che sta portando emancipazione e democrazia in alcuni importanti paesi fino ad allora erano retti da regimi dittatoriali. Tuttavia lo stesso moto di libertà ha provocato una stretta sui diritti umani in altre aree del mondo. È quello che svela il rapporto annuale della Federazione internazionale dei diritti umani (Fidh) e dell’Organizzazione mondiale contro la tortura sul primo trimestre del 2011. Secondo questo studio, l’altra faccia della Primavera araba, che ha riportato il Mediterraneo al centro del cambiamento politico e sociale, è la Cina, l’Iran, il Pakistan e molti paesi africani dove repressione e violenze si sono inasprite proprio in seguito alle rivolte di piazza Tahrir e della Kasbah di Tunisi.

Mentre il mare nostrum ribolle, negli ultimi mesi il governo del Sudan ha proibito e represso manifestazioni di protesta, l’Eritrea ha ristretto l’accesso all’informazione, in Etiopia sono state adottate pesanti misure per limitare la libertà d’espressione, in Angola e Zimbabwe da gennaio a aprile sono stati segnalati diversi casi di arresti preventivi.

Cambia latitudine, ma la giostra della repressione batte sempre le stesse strade. E con maggiore forza. Anche in Asia, infatti, l’impatto delle rivoluzioni arabe si è tradotto in una nuova ondata di restrizioni. In Cina, Bangladesh, Iran, Corea del Nord e Thailandia, le autorità hanno messo nel mirino di agenti e militari prima di tutto i media, e poi quanti a ogni livello sono impegnati nella difesa dei diritti umani. Tolleranza zero in Birmania e Pakistan contro avvocati e sindacalisti e in Iran contro gli attivisti che si battono le parità di genere con decine di membri della campagna “Per un milione di firme” imprigionati e costretti a processi farsa.

Con un solo obiettivo, secondo i relatori del rapporto: controllare la società civile e i media. Per impedire che quel mix di mobilitazione e uso libero e innovativo dell’informazione che ha buttato all’aria regimi apparentemente inossidabili si ripeta. Per questa ragione, a diverse latitudini, i governi si sono affrettati a varare leggi restrittive dei diritti individuali e hanno chiuso i rubinetti dei fondi destinati alle organizzazioni della società civile come succede in Iran, impedendo in alcuni casi l’utilizzo anche di quelli provenienti da organi internazionali.

“Ovunque il rispetto dei diritti umani è al centro delle rivendicazioni dei manifestanti – ha sottolineato il premio Nobel Aug San Suu Kyi nella sua prefazione al rapporto – Questi gruppi non si fondano su questioni identitarie, di religione o politiche ma sui principi della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”. Proprio per questo, con davanti l’esempio dei Gelsomini di Tunisi, subiscono da parte dei loro governi pressioni e violenze sempre più.

Nel rapporto 2011 le testimonianze di abusi in almeno 70 Paesi si sono moltiplicati, e chi ha denunciato le violazioni di autorità e militari in molti casi è stato minacciato, arrestato, picchiato, in alcuni casi ucciso. A onor di cronaca anche l’Europa, a diversi livelli, non esce a testa alta dal rapporto della Fidh.

Tra i Paesi dove la situazione nel corso degli ultimi mesi è peggiorata notevolmente compare la Bielorussia, soprattutto dopo le elezioni presidenziali del 19 dicembre scorso cui ha fatto seguito una pesante ondata di repressione contro gli oppositori, veri o presunti. L’impunità verso gli autori degli abusi, nell’Europa dell’est e nel Caucaso sono tra gli elementi più allarmanti. E anche in Europa centrale non mancano le zone d’ombra. Tra le aree sotto osservazione, all’inizio del 2011, anche la Francia per il trattamento riservato a rom e migranti e per una serie di atteggiamenti intimidatori riservati agli attivisti impegnati nella tutela delle minoranze.

di Tiziana Guerrisi

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