Un giornalista precario, a seconda che sia freelance o cocopro, guadagna mediamente tra gli otto e gli undicimila euro all’anno: vale a dire da 700 a 900 euro al mese. I dati provengono dal bilancio della cassa previdenziale dei giornalisti, l’Inpgi, in particolare della gestione separata dedicata ai giornalisti non assunti. All’Inpgi 2 sono iscritti quasi 30mila tra professionisti e pubblicisti, in larga parte giovani. Rispetto alla retribuzione il dato generazionale è preoccupante: i giornalisti freelance under 40 portano a casa mediamente 550 euro al mese. Una cifra spaventosamente vicina a quella che in questi giorni ha fatto scalpore: i miseri 4 euro all’ora delle operaie in nero di Barletta equivalgono infatti a uno stipendio mensile di poco meno di 500 euro.

Incomparabile la situazione dei giornalisti freelance rispetto a quella di coloro che hanno un contratto di lavoro dipendente, che sono molti di meno (circa 20mila) e sopratutto molto più vecchi – solo un quinto ha meno di 35 anni. Questi pochi fortunati giovani portano a casa in media 27.500 euro l’anno, quasi 2.300 euro al mese. Oltre il triplo dei colleghi precari. Perché loro vengono pagati mensilmente, secondo i paletti del contratto nazionale: mentre gli altri vengono pagati per ogni articolo, o tutt’al più con forme forfettarie fortemente al ribasso.

E allora la domanda è: quanto vale una notizia?
Per calcolarlo bisogna considerare almeno sei fattori.
Vale il tempo che il giornalista spende per trovarla e verificarla – cioè controllare che sia vera, che i dati siano esatti, le dichiarazioni attendibili, insomma che non sia imprecisa o peggio una bufala.
Vale il tempo della scrittura, che deve essere sintetica, accurata, chiara, comprensibile: niente è peggio di un articolo con contenuti magari ottimi ma scritto in maniera sciatta, criptica, arzigogolata, politichese, burocratese.
Vale la competenza e il network di conoscenze messe in campo dal giornalista per reperire la notizia e confezionarla in maniera inedita, interessante, originale.
Vale l’eventuale tempo e costo dello spostamento “in loco”, se c’è bisogno di andare fisicamente sul posto: ciò è per esempio imprescindibile nel caso del giornalismo video.
Vale la sua integrità, cioè la sicurezza per il lettore che quella notizia sia vera, non tendenziosa, non scritta per compiacere o ingraziarsi qualcuno o sotto imbeccata, non edulcorata, non mirata a fare buona o cattiva pubblicità a qualcosa o a qualcuno.
Vale infine il suo coraggio, e questo è importante sopratutto per la cronaca, le inchieste difficili, le notizie sul crimine organizzato: qui il giornalista rischia doppiamente perché scrive di argomenti che alcuni ambienti vorrebbero restassero nell’ombra.

A questi sei aspetti ne va aggiunto un altro, fondamentale: vale la dignità del lavoro di una persona, ben definita dall’articolo 36 della Costituzione. Nessuno dovrebbe essere costretto a lavorare per un salario evidentemente sproporzionato rispetto alla prestazione svolta.

La situazione del giornalismo italiano è al collasso, e i giornalisti che non hanno la fortuna di un contratto giornalistico si arrabattano prestando servizio per salari molto bassi. Talvolta il molto basso diventa irrisorio. In alcuni casi si scade nel da fame.

Come si sia arrivati a questo punto e cosa si possa fare per mutare rotta è il fulcro degli “stati generali dei giornalisti precari”, un evento organizzato a Firenze venerdì 7 e sabato 8 ottobre dall’Ordine dei giornalisti in collaborazione con la Federazione nazionale stampa italiana, l’associazione stampa toscana e l’OdG Toscana.

L’occasione per elaborare finalmente una strategia che possa evitare a centinaia di giornalisti – perlopiù giovani, ma non solo – di vivere nell’indigenza, completamente alla mercé di chi commissiona loro il lavoro.

Ha annunciato la sua partecipazione anche Carlo Malinconico che è il presidente della Federazione italiana editori giornali, il “sindacato” degli editori. Una presenza importante, perché la responsabilità di queste retribuzioni da fame è da imputare sopratutto agli editori. Anche se in realtà a distruggere il mercato sono moltissime testate giornalistiche piccole, tv locali, siti web, che non rispondono a nessuno del loro operato e non sono iscritte alla Fieg. Queste testate nella maggior parte dei casi non solo non fanno contratti giornalistici per ovvie ragioni di bilancio, ma utilizzano anche molto la modalità del lavoro sottopagato o gratuito, offrendo magari in cambio la possibilità di accumulare articoli (fintamente pagati) per accedere al tesserino.

E allora è più che necessario stabilire una soglia minima sotto cui nessuno per nessuna ragione possa andare se vuole acquistare il prodotto di un giornalista. A Firenze bisognerà dire questo, forte e chiaro.

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