La nave superveloce progettata dal ricercatore

Il giorno che ha perso il concorso per diventare associato all’università di Ingegneria di Genova, al 391° posto nelle graduatorie internazionali, Stefano Brizzolara è stato chiamato come professore dell’Mit di Boston. La migliore del mondo.

Adesso, mentre state leggendo queste righe, è sull’aereo che lo porta in America. Lui, 43 anni appena compiuti, la moglie Claudia insieme da una vita, i tre figli. Biglietto di andata e ritorno tra un anno, soltanto una valigia a testa. Come fosse un viaggio qualunque, perché è difficile pensare che stai lasciando il Paese dove sei nato e cresciuto. E allora ti tieni ancora dietro una casa che aspetta, la barca ormeggiata in porto per le gite della domenica. Pronti per il ritorno, anche se non ci sarà. Non lo avrebbe mai detto, Stefano, che alla sua università dedicava dodici ore di lavoro al giorno, dalla mattina a notte fonda. Quando le luci di casa si spegnevano, il suo computer restava accesso. Senza troppi sabati e domeniche, passava le giornate con gli studenti. E amen se a fine mese si portava a casa uno stipendio che bastava appena per campare. Questo era il suo lavoro e Genova la sua città. Punto.

Poi è arrivato il concorso atteso anni per il posto di professore associato. E l’amarezza, il ricorso al Tar che si deciderà a dicembre: “Per me è una questione di giustizia, vedremo la sentenza, ma non voglio fare polemiche”, taglia corto. Già, il punto non sono le beghe universitarie. Ma Stefano (un curriculum lungo 18 pagine, 25 progetti di ricerca conquistati per l’Università, 73 studi presentati a conferenze in mezzo mondo), per riuscire a fare il lavoro che ha sempre sognato, ha dovuto lasciare l’Italia. E adesso, che sta volando a Boston per occupare una cattedra sognata da tutti gli ingegneri del mondo, si sente insieme vincitore e sconfitto.

Sbaglia, però. Lui ce l’ha fatta. Chi ha perso sono altri, è un Paese che rinuncia a un ingegnere chiamato a lavorare per la Nato, che aveva portato all’università di Genova il contratto per studiare le prime navi invisibili (stealth, come gli aerei-spia segreti) della Marina Americana. Uno dei tanti contratti di Stefano, che da solo aveva messo insieme commesse per un milione di euro per il suo dipartimento e si era messo in testa di creare una squadra di giovani ingegneri navali. “Torneremo”, dice Stefano, “ho preso un anno di permesso di studio”. Chissà se ci crede davvero.

Mercoledì sera eccoli, Stefano e Claudia, a salutare gli amici del liceo: una casa affacciata sul mare da cui si vede tutta Genova, l’intera vita sotto gli occhi. Si stringono le mani, ci si abbraccia, poi birra, vino e ricordi. Strani brindisi, al futuro, ma tutti pensano al passato. Si sorride un po’ anche per dovere, ma dentro c’è una stretta allo stomaco, combattuti come sono tra la felicità per l’amico e la malinconia di chi resta. “Un brindisi a Stefano che va ad Harvard!”, sembra impossibile, quel ragazzo alto e sottile che stava sempre nell’ultimo banco a far casino, che alle interrogazioni sbagliava apposta per non sembrare secchione, ma poi nei compiti in classe infilava una sfilza di nove e finiva le espressioni quando gli altri ancora lottavano con parentesi e potenze.

I numeri, le formule per lui erano il linguaggio per decifrare il mondo: il funzionamento di una macchina, come il moto delle stelle nel cielo di un adolescente. Niente di meno arido della matematica. Da una combinazione di cifre Stefano sapeva mettere su un gioco per il computer. Ma in fondo attraverso le sue formule sperava di poter trovare un senso. Addirittura un’armonia: i numeri e le note del suo pianoforte. E i compagni già allora ad ascoltarlo. Poi l’università, i trenta e lode tanto frequenti da sembrare scontati. L’affermato studio del padre? Troppo facile. Stefano punta tutto sulla “sua” facoltà. Fonda un gruppo specializzato nei calcoli sul moto delle navi. Motori, eliche che avanzano nell’acqua, roba astrusa, ma a sentirlo raccontare ti appassioni come a una sfida titanica. È esigente, perché la matematica è una cosa seria, una disciplina di vita, ma alla fine gli studenti gli vanno dietro. E lui se li porta in giro per il mondo, per vedere come si studia all’estero e riportare i segreti in Italia.

Ma poi ecco l’intoppo, il concorso. E la realtà: il rischio, per lui senza padrini, di restare impantanato per tutta la carriera mentre altri vanno avanti.
No, impossibile rifiutare la chiamata da Boston. Eppure forse Stefano ci ha provato. Ha cercato di capire se c’erano sicurezze, prospettive nella sua città. Insomma, se poteva raccogliere il frutto di anni di lavoro. Niente da fare.

Eccolo allora con i suoi amici di una vita: Riccardo, Roberto, Daniela, Laura, Rosetta, Luca, Francesco. Altri, tanti, se ne sono già andati, a Milano, in Inghilterra, Francia, chissà. Stefano il festeggiato se ne sta in disparte, già altrove. E poi stasera ogni cosa pare avere un significato, racchiudere un simbolo. Ovunque guardi gli viene in mente un volto: nelle luci della città vede gli amici, i genitori, le sorelle. Lontano c’è un’altra vita. Non c’è formula matematica che racchiuda quello che sente. È dai discorsi degli amici che l’amarezza esce fuori come la schiuma dell’ennesima birra. Riccardo: “Questo non è un paese di merda, peggio, è un paese ingiusto”. Luca: “Dai, poi Stefano tornerà con la legge per il rimpatrio dei cervelli. Un mio amico fisico ha deciso di rientrare dall’America e dopo sei mesi gli hanno chiuso il dipartimento ed è rimasto disoccupato”. Roberto: “Vai a vedere la lista dei professori, dei responsabili dell’università… e poi dai un’occhiata alle tessere dei partiti, alle associazioni politiche”. Daniela: “L’ideale è essere figli o parenti di un professore, a quarant’anni hanno la cattedra. Sarà un caso…”.

E giù nomi, vale a Genova, come altrove. Sì, la rabbia è più facile da accettare della malinconia. Stefano no, non si mette a fare il gioco delle colpe. “In fondo per Stefano è meglio così”, sospira Francesco. Aggiunge: “Io gliel’ho detto subito: vai! Anche se dentro di me avrei voluto trattenerlo. Perché il giorno che mi hanno bocciato all’esame di diritto costituzionale è Stefano che si è presentato alla porta e mi ha portato a fare un giro in bici. Senza bisogno di dire una parola. Quando è stato il momento del dolore, Stefano era lì. Lo so, ci rivedremo. Lo so, nella vita in fondo sei solo, ma è come nelle battaglie, insieme si trova la forza per andare avanti. E la sera affacciandomi dalla finestra sentivo che anche Stefano c’era. La chiamano fuga dei cervelli, sarà, ma per me è soprattutto un amico che se ne va”.

da Il Fatto Quotidiano del 25 settembre 2011

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