Cultura

“La centrale”, gli operai migranti del nucleare in Francia. Tra precariato e radioattività

Negli impianti nucleari francesi, gestiti da Edf, lavorano 40mila persone. Ma solo la metà sono dipendenti di quel colosso pubblico, operai, tecnici e ingegneri con i salari e le condizioni fra le migliori offerte nel Paese. Il resto, invece, è rappresentato dai precari di imprese subfornitrici. Per 1.500 euro al mese (al lordo delle tasse) si ritrovano nelle parti più radioattive dei reattori. Con una quota massima di radiazioni sopportabili

di RQuotidiano
"La centrale" edito in Italia da Fazi editore

Era il 2007. Un giorno Elisabeth Filhol stava sfogliando un quotidiano. L’occhio cadde su una notizia, triste e insolita: alla centrale nucleare di Chinon tre lavoratori si erano suicidati a poche settimane di distanza. La donna, studi di contabilità alle spalle e un impiego in un’azienda qualsiasi ad Angers, nella valle della Loira, vicino a quello stesso fiume che passa dinanzi al reattore dei tre uomini sfortunati, si mise al computer. Cominciò a scrivere.

Nei mesi successivi si documentò. Non solo: riuscì a frequentare quel mondo. Per raccontare una storia. Così è nato il romanzo “La centrale”, narrazione dolente, veritiera, disarmante di un gruppo di “nomades”, operai a cottimo dell’industria nucleare francese, una delle più grandi del mondo, con i suoi 58 reattori. La Filhol, che mai aveva pubblicato, neanche una riga, ha inviato per posta il suo manoscritto ad alcune case editrici. Edito in francese da Pol, da poche settimane, il libro, un successo in patria, è disponibile anche in italiano con l’editore Fazi. “La centrale” ha rotto uno dei tanti tabù in Francia sul nucleare, l’esistenza di questi migranti dai contratti di poche settimane, che per otto mesi all’anno si spostano da una centrale all’altra, per occuparsi della manutenzione: assicurano il “lavoro sporco”, quello più pericoloso e ingrato.

Negli impianti nucleari francesi, gestiti da Edf, lavorano 40mila persone. Ma solo la metà sono dipendenti di quel colosso pubblico, operai, tecnici e ingegneri con i salari e le condizioni fra le migliori offerte nel Paese. Il resto, invece, è rappresentato dai precari di imprese subfornitrici. Per 1.500 euro al mese (al lordo delle tasse) si ritrovano nelle parti più radioattive dei reattori. La Filhol racconta la vita di un gruppo di loro, l’esistenza piatta di Yann, il narratore, e di Loic, di Bernard e degli altri. Tutti ex qualcosa: ex operai dell’auto che ormai delocalizza o ex dipendenti del reparto gastronomia di un ipermercato in crisi. La scrittrice entra con estremo tatto in un mondo virile, con le sue gerarchie, ma anche la sua implicita solidarietà. E’ uno spaccato di Francia che, forse, in tanti non si aspettano. La Francia dei più. Degli sfigati.

La principale ossessione di Yann e della sua banda è la dose. Una dose di troppo. «Direttamente assegnato ai lavori sotto radiazioni. Con un limite massimo annuale e una quota d’irradiazione che è la stessa per tutti – racconta Yann -. Solo che certuni sono più fortunati di altri in fatto di esposizione e superano l’anno senza esaurire la loro quota». Oltre i venti millisievert, sarai escluso dai contratti, per un bel po’ non potrai lavorare. Per il resto l’esistenza scorre attraverso interminabili viaggi in autostrada. Così da presentarsi all’ennesima agenzia interinale, a due passi dal reattore di turno. Gestita dalla solita ragazza bionda, abbronzata alla lampada, che sgomma su una Mini Cooper dai colori sgargianti. «Del paesaggio che scorre, non so niente. Né della geografia della Francia. Né delle decine di migliaia di chilometri segnati dal contatore che almeno sarebbero potuti servire a questo, a mettere insieme alcune tessere del puzzle».

La «banda» vive stipata in roulotte e bungalow. Esistenze spesso solitarie. O, se hanno una famiglia, quando rientreranno a casa, la moglie, per precauzione, non vorrà dormire nello stesso letto. Distanti i figli, non si sa mai. Dinanzi a questo mondo, comunque, la Filhol non si pone mai con un facile pietismo. Racconta: scarna, didascalica. E non mancano accenni lirici nella descrizione della centrale, così possente, quasi magnifica, pure agli occhi di chi ci rischia la vita. Sì, il blu intenso (e artificiale) delle piscine di raffreddamento.

Abbiamo cercato di contattare la scrittrice, ma alla sua casa editrice in Francia hanno risposto che «lei non parla, dice che il suo libro parla da solo». Ha rilasciato solo un’intervista a un sito, subito dopo l’uscita del romanzo. In quell’occasione si ricordò dell’incidente di Cernobyl. «Allora sapevo che la tecnologia utilizzata dai sovietici non era la stessa dell’Europa dell’Est. Ne avevo dedotto che in Francia un incidente del genere sarebbe stato impossibile. Immaginavo che la sicurezza da noi fosse una priorità assoluta. Fino al giorno in cui, nel 2007, ho letto del suicidio di quei tre operai. La descrizione delle loro condizioni di lavoro non corrispondeva assolutamente all’immagine idealizzata che mi ero fatta». Tutto iniziò così. L’occhio caduto su un articolo. Apparentemente senza importanza.

di Leonardo Martinelli

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