“Le spiagge italiane, saranno nostre”. Renato Papagni, potente presidente dell’Assobalneari (l’associazione dei gestori dei bagni legata a Confindustria) l’aveva detto oltre un anno fa in un’intervista contenuta in uno speciale di Report: “Diventeremo proprietari delle spiagge per un secolo grazie al diritto di superficie”.

Detto fatto, è esattamente quello che succederà grazie all’articolo 5 del decreto sullo Sviluppo approvato oggi in Consiglio dei ministri. “Per incrementare l’efficienza del sistema turistico italiano… è introdotto un diritto di superficie avente durata di novanta anni… sulle aree già occupate lungo le coste da edificazioni esistenti, aventi qualunque destinazione d’uso”.

Con queste righe le nostre spiagge vengono di fatto “vendute” ai titolari degli stabilimenti balneari per quasi un secolo. Poi se ne riparlerà. Uno stratagemma sul filo dell’incostituzionalità. Il diritto di superficie è infatti un diritto molto simile alla proprietà privata mentre le spiagge fanno parte del demanio necessario, ossia quella parte del territorio nazionale che non può essere venduta per restare a disposizione di tutti.

“Non hanno più nessun limite. E’ uno schifo” protesta Angelo Bonelli, leader dei Verdi. “Per ingannare la direttiva UE e accontentare la lobby dei balneari svendono il nostro territorio, una cosa inconcepibile in qualsiasi altro Paese del mondo”.

E’ questo infatti lo stratagemma previsto dal ministro Tremonti per accontentare i potenti sindacati dei balneari italiani, terrorizzati dall’applicazione della direttiva europea sulla libera concorrenza, L’Italia è infatti sotto procedura di infrazione comunitaria perché non applica la direttiva Bolkestein ossia l’obbligo di fare aste pubbliche per assegnare le concessioni demaniali, così come succede in tutta Europa. Tutti possono partecipare e chi offre di più si prende la concessione che, alla scadenza, viene rimessa all’asta, permettendo allo stato di realizzare guadagni proporzionati agli incassi delle attività oltre ad un salutare rinnovo tra i gestori.

Realtà completamente sconosciuta in Italia dove per decenni le concessioni sono state rinnovate automaticamente sempre agli stessi titolari in cambio di canoni ridicoli che accomunano l’Italia dal Nord al Sud. Partendo da Mondello, la bellissima spiaggia di Palermo dove una sola società, l’Immobiliare Italo Belga, controlla quasi tutto l’arenile dal 1911, un secolo esatto. 36mila metri quadri di golfo, sette milioni di euro di incassi e un canone che, nel 2010 era di 45mila euro, senza aver mai partecipato ad un’asta. O come un ristorante sulla spiaggia del litorale romano, che paga 430 euro al mese mentre il suo concorrente, dall’altra parte della strada, quindi senza nemmeno il panorama delle onde, dovendo contrattare con il mercato reale, sborsa un affitto di 12mila euro al mese. Il famoso Twiga, in Toscana, ha ricavi per 4 milioni di euro e paga 14 mila euro di canone. Il Tibidabo, lo stabilimento del presidente dell’Assobalneari Renato Papagni, nel 2010 versava al un canone di 5 mila euro al mese per 20mila metri quadri di spiaggia con 500 cabine affittate ad oltre 3000 euro a stagione. Affittandone due si è già coperto il canone e ne restano altre 498. Ma non basta, su quel pezzo di spiaggia, sempre incluso nel canone, hanno costruito anche un ristorante, un centro benessere, una piscina coperta, un bar e una boutique. Tutte strutture che, con la normativa vigente, sarebbero dovute passare allo stato italiano allo scadere della concessione, mentre con la nuova normativa resterebbero al titolare per un bel po’ di generazioni, il tutto alla faccia dello spirito della normativa europea.

“Sono beni dello stato, proprietà di tutti, oltretutto frutto della brutale cementificazione del litorale, che oggi vengono regalati ai titolari degli stabilimenti” continua Angelo Bonelli. “E con questa normativa la cementificazione selvaggia degli arenili conoscerà una nuova stagione di splendore”

Questo mentre nel resto d’Europa si va nella direzione opposta. In Spagna, a Formentera, ad esempio, le concessioni vengono rinnovate ogni quattro anni, sempre con il sistema delle aste pubbliche e senza che nessuno si lamenti. In Francia è sacro il principio del demanio pubblico e le concessioni per gli stabilimenti balneari vengono concesse per un massimo del 20% della superficie del litorale mentre il Conservatoire du Litoral, ente sotto controllo pubblico, si occupa di riacquistare per lo stato i tratti di spiaggia di proprietà privata. In Italia, invece, a Forte dei Marmi, sui cinque chilometri di frontemare, non ce n’è uno di spiaggia pubblica, relegata ai confini del territorio comunale. E se provi a sederti davanti ad uno stabilimento immediatamente arriva il solerte bagnino e ti caccia via condannandoti ad un movimento perpetuo sulla battigia.

E’ questo il contesto in cui arriva oggi il nuovo provvedimento del Consiglio dei Ministri che prevede una drastica semplificazione nelle autorizzazioni per realizzare nuovi porti e la creazione di distretti turistico-alberghieri con zone “a burocrazia zero”, viatico per i nuovi giganteschi investimenti che, ad esempio, nella zona di Roma, dovrebbero coinvolgere il nuovo porto e il rifacimento del fronte mare di Ostia. Il tutto in nome di una liberalizzazione dalle pastoie della pubblica amministrazione tra cui, come sembra chiaro, ci sono anche le concessioni demaniali marittime. Esattamente come aveva promesso un anno fa il presidente di Assobalneari che chiudeva l’intervista dicendo: “non dovremo più andare a bandi, il bene diventa nostro, ritornando a ricalcare quello che era il primo progetto del ministro Tremonti, che insomma, qualcuno disse ‘si vendono le spiagge”. Se non era andata bene la prima volta perché non riprovarci?

IL PRECEDENTE

Era il 2002 e il ministro dell’economia Giulio Tremonti aveva messo in campo la macchina delle “cartolarizzazione”, un particolare meccanismo finanziario per la vendita in blocchi del patrimonio immobiliare pubblico, all’epoca valutato tra i 40 e i 60 mila miliardi di lire. Nella finanziaria n. 448 del 2001 era però stato inserito un articolo, il 71, che prevedeva il passaggio di proprietà dei beni demaniali dallo stato ai comuni, con la contemporanea trasformazione del patrimonio da ‘indisponibile’ a ‘disponibile’ e quindi la possibilità degli stessi comuni di rivenderlo ai privati. Questi ultimi sarebbero diventati proprietari delle aree demaniali su cui erano state eseguite opere di urbanizzazione prima del 31 dicembre 1990. Una svolta epocale, un banchetto di nozze imprevisto su cui si buttarono tutti. Dopo 15 giorni le domande erano già oltre 3000 e in Versilia i 99 titolari degli stabilimenti balneari di Forte dei Marmi corsero in blocco a presentare la domanda di acquisto dopo aver diffuso proclami di esultanza. Le proteste di ambientalisti e giuristi bloccarono il tutto e il governo liquidò l’avvenuto con: “è stata solo una svista”. Oggi, a distanza di dieci anni, sembra che ci abbiano visto tutti molto bene.

di Emilio Casalini

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