E’ scandaloso, o forse soltanto molto triste, che Lietta Tornabuoni, maestra del miglior giornalismo italiano, se ne sia andata nella quasi indifferenza dei media televisivi. La sua immagine di grande e inattaccabile professionista, modello per tante e tanti, esempio di intelligenza, talento e di quella speciale dedizione al proprio mestiere che rende un giornalista imparziale e davvero credibile, la faceva apparire ormai quasi una straniera, o addirittura una sconosciuta, in un paesaggio dove chi fa informazione se vuole ottenere successo e popolarità è costretto a trasformarsi in intrattenitore o imbonitore, autopromuovendo la propria immagine e diventando un “personaggio”. La quasi invisibilità della morte di Lietta nei notiziari televisivi, su alcuni canali al massimo pezzi brevi brevi e tirati via, rappresenta non solo un inaccettabile de profundis per lei ma per tutto un genere di giornalismo nobile, rigoroso, fedele a un’etica professionale ma ormai proprio per questo svalutato come merce poco richiesta e di scarso valore. Per l’audience sembra funzionino molto meglio le polemiche urlate o gli scoop malandrini. Cultura, passione, discrezione non paiono avere molte attrattive per il video.

Lietta con il suo volto da madonna toscana, l’antica bellezza appesantita e l’instancabile presenza era una figura inconfondibile ai grandi eventi di cronaca e ai festival del cinema. Ammirata e anche temuta dai colleghi come concorrente imbattibile. Nei suoi articoli assente quel “colore” che capi e capetti delle redazioni esigevano per pigrizia dalle inviate, niente merletti di parole ma una prosa limpida, necessaria, elegante. Ogni fatto, ogni particolare, ogni nome controllati con implacabile precisione. In alcuni casi classifiche e graduatorie possono apparire insensate ma lei, la Tornabuoni, è stata la giornalista, o il giornalista, come alcuni preferivano definirla. Oriana Fallaci o Camilla Cederna, di sicuro più note al pubblico, erano anche altro, in loro la professione si mescolava a un modo di essere, a un protagonismo esistenziale che in qualche modo ne alterava il ruolo. Lietta per inclinazione e scelta voleva essere soltanto il proprio lavoro. Anche per chi la conosceva da vari decenni il versante privato restava in ombra. Una discrezione rara la sua, che aveva reso poco visibile persino il lunghissimo legame con Oreste del Buono. Aveva molti amici ma era sola, e in questo era una giornalista all’antica.

La sua grande sorella di sempre, Natalia Aspesi, nel ricordarla accennava ieri alla segreta amarezza vissuta da Lietta negli ultimi anni. Un sentimento di delusione profonda che la spegneva e che in qualche modo la avvicinava allo sconforto che aveva incupito gli ultimi anni di un altro suo grande amico, Federico Fellini.

La diversa valutazione, il peso incomparabilmente differente dato dalla stampa scritta e dall’informazione televisiva alla scomparsa di Lietta Tornabuoni, partecipazione da una parte e indifferenza dall’altra, è l’ulteriore segnale di un Paese sempre più diviso. Una mela spaccata a metà. Una nazione lacerata in tutto, nelle scelte politiche, in quelle culturali, e persino nella valutazione di una morte, in un contrasto netto e forse incomponibile di valori.

La Repubblica tradita

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