L’epidemia di suicidi a France Télécom suscita molti interrogativi: chi parla di malattia, chi di libertà

L’anno che si chiude è stato atroce per France Télécom. La valanga di ansia aveva cominciato a rotolare già nel 2006: da allora l’azienda di telecomunicazioni – uno dei massimi datori di lavoro francesi – ha eliminato un dipendente su cinque e la doppia pressione (meno impieghi, più prestazioni) continua. È un dato comune ai Paesi ricchi, che raschiano il barile per conservare competitività di fronte a quelli emergenti (soprattutto la Cina). Allora, cosa spaventa tanto France Télécom? L’"epidemia di suicidi".

Ma anche questo è comune al mondo industrializzato. L’American Bureau of Labour Statistics ci dice che negli Stati Uniti i suicidi legati al lavoro sono aumentati del 28% durante il 2008. Tenuto conto del fatto che i dipendenti di France Télécom sono in maggioranza uomini, e che in Francia gli uomini hanno un tasso di suicidi tre volte più alto di quello delle donne, la percentuale di chi si toglie la vita a FT è in linea con con la media della Francia (The Economist, 11-16 ottobre 2009, p. 33 e p. 68). In Francia si sceglie di morire più che negli altri Paesi occidentali: più che in Svezia, Germania, Stati Uniti, Gran Bretagna, per non parlare dei paesi cattolici (dati Ocse 2005).

La novità FT è un’altra. La relazione tra il tormento individuale e il tormento dell’azienda è esplicita: in diversi casi, il suicida ha accusato l’azienda e l’atto viene addirittura compiuto sul luogo di lavoro. Questa componente psicologica ha avuto come conseguenza una novità istituzionale: il suicidio è stato riconosciuto come infortunio sul lavoro.

Torniamo all’origine del problema. Perché la Francia ha un tasso di suicidi più alto fra i maggiori Paesi dell’Occidente? Perché la Francia, che fa pensare alla canzone La vie en rose, oggi evoca anche una Vie en noir? Sono in gioco diverse componenti. Da un lato la Francia ha difeso più a lungo le proprie tradizioni di solidarietà sociale e subisce ora, al declinare del primo decennio del secolo, i colpi della globalizzazione, della americanizzazione, della liberalizzazione estrema che gli Stati Uniti stessi (ma anche la Gran Bretagna) avevano assorbito più gradualmente nei decenni.

Dall’altro, le tendenze al suicidio non sono solo stagionali, hanno anche profonde radici nella cultura: il suicidio potrebbe essere un dono paradossale della laicità repubblicana, di quella libertà iscritta nella bandiera della Rivoluzione Francese (Liberté, egalité, fraternité). Albert Camus lo nomina come "libertà assurda". Il suo Le mythe de Sisyphe inizia dicendo: "C’è un unico problema filosofico veramente serio: il suicidio".

Il suicidio può esser visto da prospettive molto diverse. Si può considerarlo un problema sanitario: male da combattere secondo un modello medico, erede laico neppur troppo mascherato del male morale ebraico-cristiano. La Bibbia di questo laicismo è oggi il DSM, manuale standard della psichiatria americana, che tratta i pensieri di suicidio come patologia. Una posizione che non viene spiegata, ma ritenuta auto-evidente. Nessun suicidio può originare da una mente sana, nessun suicidio è considerato libera scelta. Paradossalmente, lottando per far riconoscere il suicidio come infortunio o patologia da lavoro, i sindacati francesi contribuiscono alla vittoria di quel modello tecnocratico americano contro cui credevano di essersi arruolati.

Paradossalmente, proprio le istituzioni ufficiali degli Stati Uniti si oppongono a questo riconoscimento. Come già Bush, come già Clinton, anche Obama, che pure ha fatto sua bandiera l’immedesimarsi nelle sofferenze individuali, non manda la tradizionale lettera di condoglianze alla famiglia dei soldati morti per arma da fuoco, se chi ha tirato il grilletto era il soldato stesso (International Herald Tribune, 26.11.2009, p. 6). Le famiglie sono piene di risentimento: il loro ragazzo, dopo aver perso la vita, ha perduto anche la qualifica di eroe? Ma il Pentagono non ha scelta.

I suicidi dei soldati continuano a crescere, dall’inizio della guerra in Iraq sono più che raddoppiati e nel 2009 dovrebbero superare il numero di quelli morti in combattimento (IHT 3.8.2009, p. 2): quali Forze Armate possono permettersi di glorificare una maggioranza di morti che ha rifiutato così radicalmente di continuare a servire la patria? Quale esercito può fare una simile apologia della diserzione? Per assolverli bisognerebbe considerare il suicidio patologia grave: ma allora si dovrebbe ammettere che le Forze Armate americane sono altamente patogene.Considerare il suicidio come male anziché come scelta non è affatto l’unica possibilità.

Il mondo classico lo vedeva come una delle poche forme di libertà, in una vita già pre-scritta dal mito, dagli dei, dal destino. Aiace, impazzito per volere di queste forze superiori, massacra agnelli invece di nemici. Ma gettandosi sulla spada si riscatta: dimostra contemporaneamente sia di accettare la primaria giustizia per cui gli sbagli si pagano, sia di avere un supremo coraggio. Paradossalmente, recupera un posto nella società proprio uscendone col suicidio. In questo, la nostra antichità non è lontana dall’Oriente. L’antico e il moderno soldato giapponese terminano il combattimento volgendo l’arma contro di sé, se non riescono a prevalere sui nemici.

Ma spesso anche l’amministratore la cui azienda sta scivolando nella sconfitta può compiere quel gesto (a differenza dell’occidentale che a volte scappa con il denaro, lasciando ai dipendenti il vuoto della cassa e della vita). Casi limitati ai discendenti dei samurai? No. In tutto l’Estremo Oriente il suicidio è opzione individuale in un mondo i cui principi di comportamento sono più collettivi dei nostri. La Corea del Sud che aveva, fino a pochi decenni fa, uno dei tassi di suicidio più bassi del mondo, ora ha uno dei più alti.

Qualcosa di simile, in scala apocalittica, sta avvenendo in Cina: che ha il maggior numero di suicidi del mondo ma anche la percentuale più alta: 300.000 all’anno, sei volte il numero dei soldati americani morti in Vietnam, una intera città di dimensioni medio-grandi. La Cina ha stabilito anche un altro primato storico assoluto: più della metà è ormai costituito da donne (Xie Chuanjiao, Chinadaily.com , 11.9.2007).

Il miglioramento economico complessivo, confermano i dati, corrisponde a un peggioramento delle disuguaglianze sociali ma anche della condizione femminile. È un costo atroce della modernizzazione e dell’arricchimento. Vale la pena, anzi è necessario chiedersi se questo prezzo sia accettabile: i costi sociali delle libertà individuali vanno valutati via via nelle circostanze storiche . Ma è pericoloso cedere alla tentazione di inserire tali libertà – anche quelle "assurde" come il suicidio – fra le malattie. In passato, sono state considerate patologie mentali anche l’accattonaggio, l’omosessualità, l’ateismo ed alcune ideologie di sinistra: oggi, neppure la destra propone di tornare a simili classificazioni.

Lo psichiatra e lo psicanalista devono spesso discutere col paziente la possibilità del suicidio. Il terapeuta riconoscerà che, quasi sempre, sarebbe stato errato usare la libertà di uccidersi per uccidersi: compiendo quella scelta non si può più esercitare nessuna delle libertà future. Ma riconoscerà anche che cedere allo spavento di fronte alla morte fa parte del rifiuto di considerare la morte come naturale: il tabù della morte, ci ha insegnato Ariès, si è diffuso in Occidente nel XX secolo proprio come nel secolo XIX si era radicato il tabù della sessualità. Avrebbe senso discutere con un paziente i contenuti della vita senza mai metter in discussione il contenitore? La nostra cultura, produttivista e angosciata dal vuoto, ha finito col relegare nell’innaturale l’evento che è ovvio quanto la nascita, l’arrivo che – suggeriva Seneca nell’antichità romana – è il "porto che si deve talvolta desiderare, mai rifiutare" (Lettera a Lucilio Sulla morte volontaria).

Chi difende i dipendenti di France Télécom deve lottare per la difesa di angoscianti condizioni di lavoro. In nessun caso, però, dovrebbe cedere alla tentazione di patologizzare la libertà interiore, faticosissima conquista politica e psicologica degli ultimi secoli: per quanto estreme ed “assurde” possano sembrare le sue scelte solitarie. La tutela di chi è economicamente debole è un dovere: cui si danno, purtroppo, sempre risposte empiriche e relative. La tutela delle libertà del pensiero è un dovere al quale si possono invece dare solo risposte assolute.

Da Il Fatto Quotidiano del 3 gennaio

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