In questa ripresa autunnale delle attività del mondo dell’istruzione si va diffondendo, dalla scuola all’università, il concetto che il coding (cioè la programmazione informatica) sia il nuovo inglese. Diversi giornali hanno ripreso e rilanciato questo concetto, comunicativamente molto semplice, ma concettualmente del tutto sbagliato, e hanno invocato l’introduzione del coding anche nelle scuole. Spiegherò in modo sintetico perché questa formulazione sia errata. Al termine del periodo dei commenti qui, trascorse 48 ore dalla pubblicazione del post, troverete su questo blog interdisciplinare una versione più estesa dell’articolo con la possibilità di continuare la discussione per i lettori eventualmente interessati.

Poiché la programmazione informatica consiste nel dare istruzioni ad un computer, può sembrare che imparare un linguaggio di programmazione sia la stessa cosa dell’imparare una nuova lingua. Così come con circa un miliardo di persone che parlano cinese o inglese ha senso imparare una di queste lingue, così con diversi miliardi di oggetti tecnologici al mondo che sono computer sembra utile imparare “la lingua dei computer”.

Ma è ben chiaro a tutti che non è tanto il sapere l’inglese che determina il successo di un imprenditore o di un professionista, quanto le sue competenze e abilità nel suo specifico campo. Non basta quindi conoscere un linguaggio di programmazione per capire e comprendere il mondo digitale. È illusorio e sbagliato pensarlo. Così come un’espressione linguistica è solo una rappresentazione del pensiero, così un programma informatico è solo la forma mediante cui rendiamo concreto il “modo di pensare di un informatico”, cioè il pensiero computazionale.

Ciò che quindi dovrebbe essere insegnato, nelle scuole ancor prima che nelle università, è la disciplina che favorisce lo sviluppo di questo modo di pensare, cioè l’informatica. Questo è necessario per comprendere le basi scientifiche del mondo digitale, per sapersi orientare nella società odierna in modo più informato e competente.

Illustro il perché con un’analogia relativa alla matematica. Alle elementari insegniamo “a far di conto” non tanto perché il fine sia imparare 3×2=6 o 12:4=3, cioè la tavola pitagorica, quanto perché è importante che il bambino capisca che se 3 bambine hanno 2 caramelle ciascuna il numero totale di caramelle si ottiene con la moltiplicazione, mentre se 12 biscotti devono essere distribuiti a 4 bambine il numero di biscotti per bambina si ottiene con la divisione. Non stiamo quindi tanto insegnando uno strumento operativo, quanto una chiave di comprensione della realtà (“il pensiero matematico”).

Qualcuno potrebbe osservare che bambine e bambini sono ormai tutti nativi digitali. Ma, come aveva già evidenziato Giorgio Israel in un articolo pubblicato sul Foglio.it, l’espressione “nativi digitali” indica semplicemente coloro che sono nati in una società digitale. I ragazzi, grazie anche alla maggiore quantità di tempo a disposizione rispetto agli adulti e ad una curiosità ancora vivissima, spesso riescono con questi dispositivi a sorprenderci. Però, la comprensione che hanno di una tecnologia complessa è solo apparente, se non c’è un’adeguata istruzione. Chiedete nelle scuole la differenza tra Google (il motore di ricerca) e Internet e vedrete. Per carità, gli esseri umani sono così intelligenti che possono usare il mondo intorno a loro anche senza una spiegazione razionale completa di come funziona, ma in questo caso non si tratta di un “libro della natura” difficile da leggere, ma di un’infrastruttura tecnologica estremamente complessa, costruita da persone per le persone, in cui l’alternativa è tra creare il proprio futuro o farselo imporre.

Riprendendo una metafora introdotta da Umberto Eco, i sistemi informatici sono come quel “Funes el memorioso” descritto da Jorge Luis Borges, che era in grado di ricordare e correlare ogni più minimo dettaglio della sua esistenza ma quasi incapace di idee generali, di pensare. In un mondo in cui non è più necessario ricordare, perché ogni informazione è facilmente reperibile, in cui la manipolazione di simboli può essere ripetuta a velocità fantastica e a costi irrisori, la capacità di porsi le giuste domande e di trovare soluzioni innovative è ciò che farà la differenza. L’informatica (la scienza, non la tecnologia) è una (non l’unica) palestra potente. L’istruzione umanistica è un’altra.

Senza esaltare né demonizzare l’uso delle tecnologie digitali in classe, scenario complesso da affrontare con un approccio critico-problematico, è bene ricordare che vi sono evidenze scientifiche che la disponibilità di strumenti che ci consentono di essere sempre connessi disturba le capacità cognitive (il cosiddetto effetto brain drain). Non è un caso che in quella Silicon Valley le cui invenzioni hanno reso il futuro presente, da molti anni ormai i figli della classe dirigente studiano in scuole senza smartphone né tablet ma con libri di carta e laboratori.

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