Ad Ancona un bambino è morto per un ascesso cerebrale conseguente a una otite batterica curata in modo inefficace con l’omeopatia. Non si tratta di un caso unico: molti lettori ricorderanno, ad esempio, il caso di Luca Monsellato, morto a quattro anni per una polmonite curata inutilmente con l’omeopatia; oppure quello di Clara Palomba, morta di diabete a seguito del consiglio di sospendere la terapia insulinica, che i genitori avevano ricevuto da una naturopata. Storie tragiche, nelle quali la prima vittima è un bambino, e le seconde vittime sono i suoi genitori ingannati da professionisti incompetenti che in piena buona fede ritengono efficaci terapie assolutamente inutili.

E’ forse quest’ultimo aspetto, della buona fede delle parti coinvolte, quello che ci colpisce di più. Perché l’essere umano è mortale e purtroppo molti bambini muoiono per malattie che noi non siamo in grado di curare; ma è terribile che ci siano bambini che muoiono per malattie che noi saremmo in grado di curare. Ed è chiarissimo che la buona fede è un ingrediente essenziale di queste storie. Se l’omeopata o il naturopata, o chi per lui, non fosse ciecamente convinto della sua “scienza”, se fosse un ciarlatano, il bambino si salverebbe: il ciarlatano, conscio del rischio a cui la sua ciarlataneria lo espone, dopo qualche giorno di trattamento inefficace, visto l’aggravarsi dei sintomi, consiglierebbe ai genitori il ricovero ospedaliero. Il ciarlatano infatti sfrutta consapevolmente la guarigione spontanea che avviene nella grande maggioranza dei casi di malattia, e se ne attribuisce il merito, ma non rischia la galera quando capisce che la guarigione spontanea ritarda. Invece l’omeopata in buona fede interpreta il peggioramento dei sintomi come “aggravamento omeopatico” o “espulsione di tossine” e rassicura i genitori sulla prossima guarigione, preparando quindi la strada del disastro. Il genitore, a sua volta in piena buona fede, è convinto che l’omeopata sappia il fatto suo, ed è rassicurato dalla lunga visita omeopatica e dalla promessa di una terapia gentile, priva di effetti collaterali.

Il punto debole in questa catena di eventi dall’esito tragico, sta nell’incompetenza dell’omeopata che non capisce che sta utilizzando uno strumento inefficace, e nell’incompetenza del paziente che, pur avendo accesso a tutta l’informazione necessaria, sulla rete, su libri e su riviste, sceglie il peggio anziché il meglio. Può morire anche chi si affida alla medicina tradizionale, ma in quel caso sarà stato fatto tutto il possibile. Invece chi muore affidandosi all’omeopatia non ha fatto nulla per curare la sua malattia: ha lasciato che la natura facesse il suo corso aggiungendo soltanto un po’ di effetto placebo.

Se una difesa per il cittadino esiste, questa sta in una rigorosa applicazione dell’articolo 55 del Codice di Deontologia medica, che obbliga il medico a fornire al cittadino “un’informazione sanitaria accessibile, trasparente, rigorosa e prudente, fondata sulle conoscenze scientifiche acquisite”. Ho già sostenuto questo punto a proposito dei provvedimenti che l’Ordine ha preso nei confronti del dottor Gava, e penso che sia altrettanto pertinente ai casi di morti omeopatiche: è vietato al medico fornire al cittadino o al paziente informazioni scientificamente infondate, atte a indurlo ad accettare scelte terapeutiche avventate. Ad un medico (come ad uno scienziato) non è concessa la libertà d’opinione in materia di scienza (medica): nella scienza si formulano ipotesi, non opinioni, e si sottopongono a verifiche sperimentali. Se un medico ha un’opinione diversa dalle ipotesi scientifiche correnti è tenuto a riformularla nella forma di un’ipotesi testabile e a sottoporla ad una validazione mediante uno studio clinico approvato dai competenti comitati etici, prima di poterla proporre ai cittadini o ai suoi pazienti.

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