Un altro referendum, oltre a quello della Cgil su voucher e appalti, incombe sugli elettori: è quello per l’autonomia di Veneto e Lombardia, un referendum consultivo e senza quorum, vince chi prende più voti. La data ancora non c’è: la proposta di tenerlo nello stesso giorno delle amministrative con un election day (che avrebbe fatto risparmiare 14 miliardi di euro) è stata bocciata dal governo. Anche se in consiglio regionale veneto si spera ancora di poter votare prima dell’estate, è più probabile che la consultazione si terrà il prossimo autunno, tra settembre e ottobre. Ma di cosa si tratta?

Per capire meglio vediamo prima l’unico quesito rimasto, visto che altri sei quesiti sono stati bocciati dalla Corte Costituzionale. “Vuoi che alla Regione Veneto siano attribuiti ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”, recita la domanda che i cittadini si troveranno sulla scheda. Come s’intuisce, tutto è molto vago.

Se dovessero vincere i Sì, nell’immediato non cambia nulla, essendo un referendum solo consultivo, ma a quel punto i governatori di Veneto e Lombardia, Luca Zaia e Roberto Maroni, avranno più forza contrattuale quando si aprirà il negoziato con il governo centrale. Dopo il referendum, infatti, le due Regioni potranno trattare con Roma per ottenere maggiori competenze e anche la possibilità di mantenere una parte della tassazione che oggi finisce allo Stato, come l’Irpef, sul territorio. Naturalmente il governo potrà accettare le loro richieste in toto, in parte oppure rifiutarle. La soluzione più logica è che alla fine si raggiunga un compromesso dove alcune competenze, anche in materia fiscale, passeranno alle regioni. Ma Veneto e Lombardia saranno ben lontane dal raggiungere l’autonomia, per esempio, delle regioni a statuto speciale, che è il vero obbiettivo del referendum, oltre al tentativo del Veneto di frenare la corsa dei comuni di confine verso Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, proprio per l’autonomia di cui godono queste regioni.

Il sogno di Lombardia e Veneto è che il 90 per cento delle tasse restino sul territorio. Se si calcola che esse cedono ogni anno allo Stato un residuo fiscale – ovvero la differenza di entrate e di spese – di oltre 70 miliardi (53,9 miliardi la Lombardia e 18,2 il Veneto), si capisce l’entità del fenomeno e la botta che potrebbe arrivare allo Stato, che si vedrebbe privato di una bella fetta di risorse. Ma non si tratta solo di soldi. Le due Regioni reclamano maggiore autonomia in settori come la scuola, l’ambiente, il demanio idro-geologico, la salvaguardia del territorio, i beni culturali, le strade e la viabilità fuori dal diretto controllo dell’Anas, la pubblica amministrazione e la gestione di alcuni fondi europei. Tra queste ci sono anche competenze delle province, che questi enti non sono più in grado di assolvere per mancanza di fondi. Il difficile, però, viene dopo perché per modificare alcune di queste competenze bisogna mettere mano a tre articoli della Costituzione, e i tempi si allungano.

Chi più spinge per il referendum autonomista, naturalmente, è la Lega Nord. Ma l’autonomismo fa parte del Dna dei veneti dai tempi della Repubblica Serenissima fino a quelli più recenti della lotta della Liga Veneta: in quella regione i Sì potrebbero arrivare al 70-80%. “Per noi questo non è un referendum partitico, ma è il referendum dei veneti – afferma Nicola Finco, capogruppo della Lega in Regione Veneto – Noi puntiamo a mantenere tutte le nostre entrate sul territorio. La vittoria non cambia immediatamente le cose, ma è un primo passo: un conto è andare a trattare col governo forti di un ampio mandato popolare oppure senza. Con un’ampia vittoria dei Sì lo Stato centrale dovrà prendere atto della volontà dei cittadini e sedersi al tavolo con uno spirito collaborativo. Da noi l’aspettativa è altissima”.

Tutti i partiti qui hanno votato a favore del referendum, tranne il Pd, che si è astenuto. Alcuni oppositori hanno giudicato il referendum talmente ovvio da essere inutile, altri invece lo considerano un atto eversivo che mina i principi dell’unità nazionale. “Da parte nostra è stato un errore, perché significa non essere in sintonia con la stragrande maggioranza del popolo veneto”, sottolinea Simonetta Rubinato, deputata del Pd di Treviso. “Detto questo, io sono favorevole a un autonomismo responsabile (garantito dall’art. 5 della Costituzione), non provinciale ma all’interno di un quadro europeo, differenziato e a geometria variabile, perché ci sono regioni come la nostra che sono già in grado di gestire questo processo e altre ancora no”, prosegue Rubinato. “Questa per i veneti è un’occasione straordinaria – continua la parlamentare democratica – ma non è il referendum di Zaia. E’ una scommessa di buon governo: il Veneto potrà essere un laboratorio di autonomismo responsabile che, se funziona, può essere esportato in altre regioni italiane. L’autonomia responsabile può essere la chiave per riformare dal basso il Paese, visto che partendo dal centro non ci si è riusciti”.

Insomma, con questo voto i veneti potranno manifestare tutto il loro disagio nei confronti dello Stato centrale e chiedere, dopo anni di lotte, maggiore autonomia.
E la Lombardia? Nonostante sia la patria della Lega, l’autonomismo qui è meno sentito e riguarda soprattutto la possibilità di mantenere le risorse economiche sul territorio. I Sì vinceranno anche qui, ma il risultato, come responso e partecipazione, potrebbe essere nettamente inferiore.

Il referendum è fortemente sostenuto dalla stampa di destra, con Vittorio Feltri che su Libero ha pure vergato un editoriale dal titolo emblematico: “Il referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto può salvare l’Italia”. Sarà davvero così? Gli oppositori non mancano e la campagna elettorale – per ora soverchiata da numerosi altri temi – si annuncia movimentata.

IL DISOBBEDIENTE

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