Perché pagare di più per qualcosa che, per legge, dovrebbe costare meno? Questa la triste sorte degli italiani alle prese con i farmaci. Ma non si tratta del paradosso degli equivalenti (o generici che dir si voglia) che, identici a quelli griffati (a parte il costo inferiore), restano ancora poco utilizzati a causa dei pregiudizi del tutto immotivati dei consumatori. Stavolta a finire sul banco degli imputati ci sono i medicinali di fascia C con obbligo di ricetta che, non considerati essenziali, servono a curare patologie di lieve entità come mal di denti e dolori muscolari.

In particolare, si tratta di circa 3.800 specialità, tra cui antidolorifici, antinfiammatori, antidepressivi e anticoncezionali per i quali non è previsto alcun rimborso da parte del Servizio sanitario nazionale. Farmaci talmente diffusi che ogni anno fanno spendere agli italiani 3 miliardi di euro, in media 180 euro a famiglia, vale a dire il 36% della spesa farmaceutica privata. Forse, però, non tutti sanno che dal 2012 il decreto Cresci Italia ha concesso alle farmacie la possibilità di praticare sconti su questi medicinali. Ma non lo fanno quasi mai: secondo una recente indagine di Altroconsumo, su 100 farmacie campione di 10 capoluoghi italiani solo una ha applicato lo sconto dell’8%. Di solito si attengono invece al prezzo stabilito dalla casa farmaceutica.

Il motivo? “Non c’è concorrenza, stiamo parlando di un mercato che resta ad appannaggio delle 18.201 farmacie presenti in Italia che detengono il monopolio dei medicinali di fascia C con obbligo di prescrizione. Una lobby talmente potente da riuscire a bloccare il processo di liberalizzazione iniziato 10 anni fa dalla legge Bersani”, spiega a ilfattoquotidiano.it Davide Gullotta, presidente della Federazione nazionale Parafarmacie italiane. Che aggiunge: “Da allora, infatti, solo i farmaci da banco e di automedicazione (Sop e Otc) possono essere venduti nelle parafarmacie, dove è obbligatoria la presenza di un farmacista, e presso la grande distribuzione (come i corner di vendita all’interno dei supermercati), consentendo agli italiani di risparmiare fino al 15% sul prezzo finale”. Ad esempio, una confezione di analgesico da 20 compresse costa mediamente 8,93 euro in farmacia, ma solo 7,55 euro nell’ipermercato.

Tant’è che se anche i farmaci non mutuabili fossero venduti fuori dalle farmacie “potrebbero portare a un risparmio annuo che va dai 450 milioni agli 890 milioni di euro, con uno sconto a famiglia da 27 euro a 53,45 euro all’anno”, continua a ripetere Francesco Pugliese, ad di Conad (tra le sigle della grande distribuzione è quella che più ha puntato sul segmento del farmaco), che per sollecitare l’apertura del mercato dei farmaci di fascia C ha lanciato la petizione online “Liberalizziamoci” a cui hanno aderito 200mila cittadini e che ha incassato il sostegno di Altroconsumo e delle parafarmacie italiane.

Dall’altro lato della barricata si schiera, invece, Federfarma, che continua a mettere in discussione i dati sui possibili risparmi sbandierati, replicando che si potrebbe ottenere “solo praticando sconti che vanno dal 20% al 30% su tutti i medicinali di fascia C con obbligo di ricetta”. Risultato, quindi, realisticamente impossibile da realizzare. Con la presidente dei farmacisti, Annarosa Racca, che respinge al mittente le accuse: “Il vero obiettivo di Conad non è tutelare il potere d’acquisto della persona, come sostiene Pugliese, ma strappare clientela agli altri esercizi riempiendo i supermercati di tutti i tipi di prodotti. Così la Gdo – aggiunge Racca – vendendo anche i medicinali con ricetta (cosa che non avviene in nessun Paese al mondo), mette in crisi le farmacie che non possono essere private di ulteriori risorse senza che siano compromesse l’efficienza e la capillarità del servizio che svolgono”.

Eppure lo strumento per rendere questo risparmio possibile ci sarebbe. Il ddl Concorrenza, approvato dal consiglio dei ministri il 20 febbraio 2015, prevede una serie di liberalizzazioni in campi che vanno dall’Rc auto all’energia, dalle banche ai taxi passando per le farmacie. Ma da mesi il ddl è fermo in Senato. E, in ogni caso, l’ultima versione del testo non fa alcun cenno alla liberalizzazione dei farmaci di fascia C con ricetta. Anzi. Tutti gli emendamenti presentati in proposito sono stati di volta in volta bocciati dal Parlamento. “Nessuno può negare un ruolo della lobby dei farmacisti e la presenza di forti interessi economici che impediscono alla liberalizzazione di compiersi in pieno”, sottolinea Gullotta.

Ora, quindi, gli occhi di parafamacisti, farmacisti e, soprattutto, consumatori sperano che il nuovo premier Paolo Gentiloni riprenda in mano il dossier sulla concorrenza, come ha fatto intendere il ministro allo Sviluppo economico, Carlo Calenda la scorsa settimana. Anche se Adriana Galgano, componente della Commissione permanente per le Attività produttive, non sembra crederci troppo: “Secondo il programma trimestrale, ddl Concorrenza alla Camera a marzo. Ci crediamo?”, ha scritto su Twitter.

In attesa che la politica si faccia sentire, qualcosa concretamente sta però accadendo sui banconi delle farmacie: dall’inizio dell’anno sono un’ottantina i farmaci di fascia C con ricetta che hanno subito incrementi di prezzo, in media il 5% in più, per decisione delle aziende produttrici. Il caso più eclatante è il +17,1% fatto registrare da un collirio il cui prezzo dalla sera alla mattina è passato da 7,60 euro a 8,90 euro. Rincari del tutto legali, visto che sono previsti dal decreto Storace (convertito nella legge 149/2005) che consente nel mese di gennaio degli anni dispari, dunque ogni due anni, di ritoccare all’insù i listini di questi medicinali.

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