Tortura abbastanza a lungo i dati e loro ti diranno qualsiasi cosa. La battuta è nota tra chi ha a che fare con numeri e statistiche. Il problema è che a volte chi governa la prende un po’ troppo alla lettera. La tentazione dev’essere forte: in fondo si tratta “solo” di numeri scritti sulla carta, a volte anche molto piccoli. Cifre che però una volta che portano con loro il marchio dell’ufficialità si trasformano in giudizio sull’operato del governo, come nel caso dei dati sulla disoccupazione. Oppure diventano il grimaldello per smuovere miliardi di euro (come accade per i calcoli sul deficit) o cercare di convincere gli elettori ad esprimersi in modo gradito all’esecutivo, come accaduto a più riprese in Italia prima del referendum sulla riforma costituzionale.

La realtà alla fine prevale sulle favole – Gli attriti e i tentativi di condizionamento tra governi e istituti di statistica, uffici studi e banche centrali sono all’ordine del giorno ed entro certi limiti comprensibili e tollerabili. Il discorso si fa però più ambiguo e scivoloso quando, pur non esercitando ingerenze dirette, chi governa attua una sorta di pressione mediatica o, peggio, mette in discussione l’autorevolezza di chi confeziona le statistiche o caldeggia più o meno esplicitamente dimissioni e passi indietro. Il problema deflagra quando chi governa invade con prepotenza il campo dell’avversario, e modella cifre e statistiche come più fa comodo. Gli esempi non mancano e la storia insegna che di solito va a finire male. Presto o tardi, purtroppo o per fortuna, la realtà ha infatti sempre modo di prevalere sulle favole. Limitandosi alla casistica più recente si possono rammentare le vicende dell’Argentina, della Grecia, della Turchia o dell’India. O della Cina sulle cui statistiche economiche da tempo si avanzano dubbi.

Il caso Argentina: inflazione ridimensionata per non creare allarme – Negli anni del governo di Cristina Fernandez de Kirchner nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla veridicità dei dati ufficiali sull’inflazione argentina. Dal 2007 al 2014 le cifre sono state sistematicamente ridimensionate. A fronte di indicatori che stimavano una corsa dei prezzi superiore al 40% l’inflazione ufficiale è sempre rimasta intorno al 20%. Non è difficile capire per quale ragione. Nel 2007 l’allora presidente, e marito di Cristina, Nestor Kirchner sostituì i vertici dell’ufficio di statistica argentino (Indec) con personale di sua fiducia. La manipolazione dei dati fu anche motivo di scontro con il Fondo monetario internazionale che minacciò Buenos Aires di sospendere qualsiasi forma di collaborazione se il Paese non avesse iniziato a presentare statistiche affidabili. A fine 2014 l’indice ufficiale indicava un tasso di crescita dei prezzi al consumo di circa il 22% l’anno, mentre istituti indipendenti e la semplice osservazione di quanto avveniva sugli scaffali dei negozi rivelavano un incremento dei prezzi almeno doppio. Un altro vizio argentino è stato quello di contenere artificialmente il tasso di cambio. Nel 2014 un dollaro americano veniva scambiato ufficialmente per circa 9,5 pesos. Nel frattempo sul mercato nero serviva quasi il doppio: un dollaro per 16 pesos. Nel giugno del 2015, sotto la nuova presidenza di Mauricio Macri, fu diffuso il primo dato sull’inflazione calcolato con un nuovo indice. Il dato mostrava un incremento dei prezzi del 4% rispetto al mese precedente e un tasso annuo di incremento dei prezzi vicino al 40%.

In Cina statistiche sulla crescita sotto la lente – I dubbi sui dati cinesi riguardano invece soprattutto le statistiche sulla crescita economica. Secondo centri di rilevazione indipendenti sottostimata nei momenti di boom e sovrastimata nelle fasi di rallentamento. In molte occasioni è stata sottolineata l’incongruenza tra quanto mostrato dalle rilevazioni su produzione industriale, esportazioni o altri indicatori e il dato finale sulla crescita. Gli analisti specializzati sull’Asia riassumono la situazione dicendo che il loro compito non è più quello solo di stimare il vero tasso di crescita economica ma anche quello di prevedere quello sarà il tasso che annunceranno le autorità di Pechino. Così nel corso degli anni sono proliferati indicatori alternativi sulle performance economiche cinesi che prendono a riferimento dati come quelli sui prestiti bancari, produzione di elettricità, carichi dei treni merci e altro ancora. Tutte cifre che possono fornire un qualche segnale sull’andamento dell’economia ma nella cui affidabilità molti esperti invitano a non riporre troppa fiducia. Dati ufficiali e rilevazioni alternative hanno iniziato a divergere in modo significativo a fine 2012 quando l’economia del gigante asiatico ha intensificato la fase di rallentamento. Attualmente i dati ufficiali parlano di una crescita di circa il 7%, mentre secondo indicatori indipendenti l’incremento del pil sarebbe sotto al 5%. Ogni anno i vertici del Partito comunista cinese fissano un obiettivo di crescita (per il 2016 tra 6,5 e 7%). In un paese dove la pianificazione centrale svolge ancora un ruolo chiave il fallimento nel raggiungere un obiettivo economico assume immediatamente una valenza politica e la tentazione di metter mano ai dati è particolarmente forte.

Il banchiere centrale indiano ha lasciato perché “troppo indipendente” – Nella vicina India l’addio anzitempo di Raghuram Rajan alla carica di banchiere centrale sembra essere riconducibile anche a una certa insofferenza dell’élite economica del Paese per le critiche alla gestione clientelare del credito bancario. Rajan aveva invitato gli istituti di credito del Paese, per lo più a controllo pubblico, a erogare i finanziamenti in base a valutazioni economiche e finanziare piuttosto che per ragioni “politiche” e di favore. L’ex governatore, formatosi negli Stati Uniti ed ex economista Fmi, era molto apprezzato dai mercati per la sua autorevolezza e la determinazione nel combattere l’inflazione. Una pratica non sempre apprezzata da chi governa poiché solitamente per frenare la corsa dei prezzi si rallenta nell’immediato il ritmo della crescita economica. Non certo un toccasana per chi deve badare al consenso elettorale.

Anche in Turchia la Banca centrale sotto pressione – Un altro Paese dove la banca centrale è da tempo sottoposta a indebite pressioni è la Turchia. Da anni il presidente Recep Tayyip Erdogan sposa teorie del complotto secondo cui sarebbe all’opera una “lobby estera dei tassi di interesse”. Un’organizzazione che comprende le principali banche del pianeta e che agirebbe per boicottare la crescita economica del paese e affossarne la valuta. Correlato piuttosto curioso e inedito di questa teoria è che una riduzione dei tassi avrebbe come effetto benefico anche quello di ridurre l’inflazione. Erdogan si è spinto fino al punto di definire “traditore” chiunque si opponga a un taglio del tasso di interesse, che in teoria ha l’effetto di favorire la crescita economica ma provoca inflazione. Non sorprende che il governatore Erman Basci si sia poi dimesso prima della scadenza del suo mandato per lasciare il posto a Murat Cetinkaya. Che di recente ha alzato i tassi per tentare di sostenere la valuta nazionale (senza successo). 

La Grecia dai conti truccati ai piani di salvataggio – Il caso più celebre di manipolazione di statistiche e cifre dei tempi recenti rimane probabilmente quello della Grecia, di cui abbiamo ancora sotto gli occhi le tragiche conseguenze. La bomba deflagra nel 2009 quando con l’ingresso in carica del nuovo primo ministro George Papandreu Atene ammette di aver truccato i conti pubblici comunicati a Bruxelles 1999. Il deficit pubblico non sarebbe quindi al 3% del pil come comunicato a Bruxelles ma quattro volte più grande. Il maquillage è talmente spinto che per realizzarlo c’è voluto l’aiuto di esperti esterni. La banca d’affari statunitense Goldman Sachs in cambio 300 milioni di euro aiutò infatti il Paese ad abbellire i dati di bilancio.

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