A Lampedusa non si nasce. L’ultima bimba che sul certificato ha riportato il nome dell’isola è Manuela, figlia di una donna camerunense soccorsa da un gommone in difficoltà. Manuela è nata sulla nave della Marina militare. Le mamme di Lampedusa invece per far nascere i figli devono traslocare a Palermo a spese loro visto che il trasferimento e il soggiorno costano. Lampedusa da 30 anni a questa parte è l’isola dei migranti; dal 1988 ad oggi sono morte 20mila persone al largo di questa terra oggi praticamente militarizzata.

Polizia di Stato con relative unità cinofile, guardia di finanza, carabinieri e guardia costiera: a Lampedusa non manca nessuno. Una militarizzazione motivata dalle autorità nazionali come risposta all’allarme lanciato dal Copasir – guidato dal leghista Stucchi – secondo cui, dopo la liberazione di Sirte dall’Isis, “lo scenario è completamente cambiato e cresce oggettivamente il rischio che dei militanti possano fuggire in Europa anche via mare”. I lampedusani per la verità credono poco che i terroristi arrivino su barconi o gommoni e, in caso di navi più attrezzate, i sei radar presenti sull’isola (per maggiori informazioni è disponibile il link) dovrebbero svolgere le loro funzioni.

L’allarme dei servizi segreti era stato lanciato nel 2013, anno che rappresenta una linea di demarcazione tra un “prima” e un “dopo”: il 3 ottobre di quello stesso anno infatti a poche miglia dal porto dell’isola affonda un’imbarcazione. Il bilancio è di 366 morti accertati, decine di dispersi e 155 superstiti di cui 41 sono minori. Alcuni di loro oggi sono tornati a Lampedusa in occasione della Giornata nazionale per le vittime dell’immigrazione che si celebra il 3 ottobre. Vengono dalla Svezia, dalla Germania o dalla Norvegia come Abraham di 24 anni, nato in Eritrea. Abraham è stato uno dei ragazzi che allora decise di testimoniare al processo contro gli scafisti e anche quella fu una vera avventura. Ma per lui essere sopravvissuto e avere avuto la possibilità di rinascere una seconda volta è più importante di tutto quindi sorride guardando Antonino Taranto, presidente dell’archivio storico di Lampedusa e protagonista insieme ad altri di Beyond The Fortress, un progetto giornalistico internazionale dall’approccio documentaristico che coltiva l’ambizione di “sfidare gli stereotipi” e “generare una discussione” su quella che negli ultimi anni sono diventati questi venti chilometri quadrati di terra raccontati molto,  ma spesso male.

Nino è apparentemente brusco, non ama troppo i giornalisti e soprattutto quella che definisce la “spettacolarizzazione” di Lampedusa dove oggi non esiste alcun contatto tra i migranti – che sono ospitati nell’hotspot (che prima era un centro d’accoglienza da cui fuggivano) e i tanti turisti che arrivano. A Lampedusa non sembra mancare nulla per i visitatori: negozi, piccole botteghe artigianali, iniziative culturali, gite in barca con “yuppi du”, persino i giornali alle 10 di mattina il che per un’isola non è semplice. A Lampedusa si affitta tutto: case, camere, ville, motorini e vecchie Mehari. C’è pure il partito di quelli che vorrebbero che Renzi chiedesse all’Europa di ottenere lo status di porto franco, per abbassare il costo della benzina attualmente più oneroso, mediamente cinquanta centesimi in più che in “continente”.

L’isola di Lampedusa accoglie al meglio i suoi visitatori, così come ha sempre accolto i migranti che “prima del 2013” ricorda Nino, arrivavano davvero come disperati convinti che quella fosse già l’Italia intesa come terra ferma: “Chiedevano dove fosse la stazione ferroviaria per raggiungere Milano“. Il 2011 fu l’anno peggiore: sbarcavano disperati inzuppati di acqua che si accampavano ovunque, ma anche allora gli isolani furono ospitali. Costantino Baratta, il muratore di Lampedusa che sempre nel 2013 con la sua piccola barca portò in salvo decine di persone naufragate ricorda: “Sull’isola eravamo 5mila persone, ma ad un certo punto arrivarono 9mila profughi. Non riuscivamo a sfamarli. Facevamo ciò che potevamo. Ognuno di noi, in modo spontaneo, metteva a disposizione il cibo che aveva”.

Dopo il 2013 la spontaneità non è stata più necessaria. Oggi l’accoglienza è affidata alla forze dell’ordine, al protocollo, anche se poi all’hotspot le persone invece di tre giorni ci stanno magari anche un mese. I lampedusani non amano i giornalisti, il clamore e forse neppure essere al centro dell’attenzione. Lo stesso Baratta – nominato uomo dell’anno 2013 dal settimanale l’Espresso – si schermisce: “Non mi sento un eroe. Un eroe è colui che dopo aver fatto un’azione si sente meglio. Io non mi sono sentito meglio a salvare quelle persone. Ho fatto solo quello che tutti farebbero”.

Le sue parole sono impresse nel documentario Lontano dagli occhi realizzato da Domenico Iannacone e Luca Cambi e presentato in anteprima nazionale al Prix Italia che si è svolto dal 30 settembre al 2 ottobre a Lampedusa: la stessa sera è stato proiettato “StarS. Humanity is the best blessing of mankind” di Rai Cinema e “Ritorno a casa. Speriamo che Adal stia sempre bene”. Seduti in piazza Belvedere per la verità più turisti e giornalisti venuti da altri paesi d’Europa che lampedusani, ma poco importa, loro ci sono stati quando dovevano esserci e in fondo, come ha ben scritto un giornalista spagnolo nel suo reportage del 2013 e di cui è conservata una copia nell’archivio di Lampedusa: “Un posto di frontiera non ha pietà. Ti dà e ti toglie tutto”.

Foto Archivio Storico Lampedusa

e.reguitti@ilfattoquotidiano. it

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